Il nuovo anno si è aperto all'insegna delle guerre che sconvolgono vari angoli della Terra. Nel 2024 l'80% della popolazione umana andrà a votare: la solidarietà, la cooperazione e la diplomazia economica sono i mezzi per conquistare una pace che oggi sembra lontana ma che è nel desiderio dei popoli di un mondo che è abbastanza grande per tutti
Il 2024 è un anno di guerre. Tutti desiderano la pace, ma oggi sembra essere fuori dalle possibilità concrete
Giulio Cesare ebbe timore a chiamare settimo quel giorno in più che cadeva negli anni bisestili il sesto giorno avanti le calende di marzo. E tuttavia la sua prudenza non impedì di cadere vittima di un complotto proprio alle Idi di marzo. Ecco perché ancora oggi chiamiamo bisestile (dal latino bisextus, «due volte sesto») l’anno che ha un giorno in più nel calendario e che cade ogni 4 anni. Dunque, questo 2024, bisestile, già si presenta eccezionale e non solo per la profusione di almanacchi, oroscopi e vaticini che affollano i mass media, compresi quelli digitali, in questi giorni. Ma perché, purtroppo, è un anno di guerre (50 sono state ultimamente registrate sulla Terra), con in primo piano Israele, la Palestina e l’Ucraina. Tutti desiderano la pace, ma oggi sembra essere fuori dalle possibilità concrete. L’incertezza sul futuro è poi per così dire amplificata anche da un’altra circostanza, abbastanza unica nella storia. Come ha scritto l’Economist, “nel 2024 voterà un numero maggiore di persone rispetto a qualsiasi altro anno in precedenza”. L’elenco completo degli appuntamenti elettorali vede coinvolti 76 Paesi nel mondo in cui tutti gli elettori avranno la possibilità di esprimere il proprio voto. Fra di loro ci sono otto tra i più popolosi del mondo: Bangladesh, Brasile, India, Indonesia, Messico, Pakistan, Russia e Stati Uniti. Si voterà anche in Europa per eleggere il nuovo Parlamento europeo e ci saranno elezioni per le nuove assise in Austria, Belgio, Croazia, Lituania, Portogallo e Romania, mentre nuovi presidenti saranno eletti in Croazia, Finlandia, Lituania, Romania e Slovacchia. Altre elezioni sono programmate anche in Azerbaigian (presidenziali), Bielorussia (parlamentari), Georgia (entrambe), Moldavia (presidenziali), Nord Macedonia (entrambi). Al voto locale anche la Gran Bretagna, che però rinnoverà il Parlamento e il governo solo all’inizio del 2025, mentre l’Islanda ha in programma in giugno le elezioni presidenziali.
La vera partita di questo anno elettorale è però tutta culturale. Perché questa inedita esplosione partecipativa (e contemporanea) dei cittadini del mondo giunge in un momento della storia, a quasi 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando alcuni pilastri della convivenza globale, a cominciare propria dalla fede nella democrazia, sembrano avere drammaticamente perso d’importanza nelle menti e nei cuori degli elettori. La “fine della storia” si è consumata in un modo del tutto diverso da come l’aveva descritta lo stesso Francis Fukuyama nei suoi studi all’American Enterprise Institute dopo il 1989. Oggi in genere, nel mondo, la democrazia è un principio annebbiato, messo in discussione non solo da “destra”, dai vari sovranismi e dagli autoritarismi, ma anche dalla stessa pulsione “woke” della più avanzata cultura occidentale, di “sinistra”, dalla cosiddetta “cancel culture”, che pare aver soppiantato il concetto stesso di tolleranza volterriana. La Ragione, tipica delle culture più avanzate, non è più un pilastro culturale delle moderne democrazie.
Lo stesso potremmo dire del concetto di multipolarismo e multilateralismo nella convivenza internazionale. Basti pensare all’Onu. Quando nasce, nel 1945, il panorama di valori che fa da sfondo a questa istituzione è molto chiaro: la Carta di San Francisco è esplicita. Dice, ed è impressionante rileggerla oggi: “Noi popoli delle Nazioni Unite siamo decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti…”. Oggi l’Onu è bistrattato, spesso ignorato, tradito nei suoi ideali. Andrebbe certamente riformato come chiedono i Brics, i leader dei popoli del Sud del mondo. Dopo la Ragione, è la Pace fra i popoli che dovrebbe tornare sul palcoscenico mondiale del 2024. In questa “guerra mondiale a pezzi” che papa Francesco ha per primo visto e condannato.
Il terzo elemento che negli anni del Secondo dopoguerra segnò la storia dell’Occidente e cioè il libero scambio commerciale, che soprattutto prese vigore dal grande disegno dell’Europa unita, oggi sembra quasi dimenticato. Un grande liberale della storia italiana, Luigi Einaudi, che fu il primo Presidente della Repubblica dopo il Fascismo, amava dire in quegli anni che “il confine è polvere”. L’aspirazione potente delle democrazie e degli Stati che avevano sconfitto il nazi-fascismo fra il 1940 e il 1945 era proprio quella di rompere il vecchio meccanismo costrittivo e riduttivo del nazionalismo e del colonialismo. Einaudi, da liberale, predicava l’abolizione di dazi e barriere, di protezionismi e chiusure. La diplomazia economica avrebbe contribuito ad una nuova fratellanza fra i popoli. Per certi versi la costruzione dell’Europa, fino alla moneta unica, ha portato avanti per anni quegli ideali. Ma oggi, anche questi, basti pensare alle politiche sui migranti e alla erezione di nuovi muri e barriere, appaiono in crisi, se non perdenti.
E tuttavia anche nei confronti di questo 2024, appena iniziato, è necessario sperare. Il grande poeta francese Charles Péguy diceva che “la Speranza ama ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità. Per così dire nel futuro dell’eternità. La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà. Ama quel che non è ancora e che sarà. Nel futuro del tempo e dell’eternità”. Péguy scriveva questi versi in anni bui della sua storia personale e delle vicende del mondo. Ma sembrano perfette anche per l’oggi.
Non c’è niente di ineluttabile e fatale nella storia umana
I popoli che andranno alle urne in questo anno elettorale devono ancora scegliere: possono ancora spingere per la pace, per una migliore convivenza fra i popoli, possono chiedere una nuova stagione di pace e di dialogo fra Nord e Sud del mondo. Non c’è niente di ineluttabile e fatale nella storia umana. Le minacce della guerra e del totalitarismo tecnologico e culturale, della creazione di muri e barriere, non devono fermare l’aspirazione dei cittadini del mondo, che vogliono concretamente una vita migliore per loro e i loro figli e nipoti. Vogliono un mondo con meno CO2 e meno disuguaglianza fra ricchi e poveri, con meno sperequazione fra Nord e Sud della Terra e con più rispetto per l’ambiente.
È poco realistica questa speranza? I segnali di un’esigenza forte di cambiamento in realtà non mancano. Il mondo non vuole rassegnarsi ad una “guerra mondiale a pezzi”. Soprattutto non vogliono i popoli. Alcune parole pronunciate dal presidente cinese Xi Jinping lo scorso 15 novembre a San Francisco, durante l’incontro, faccia a faccia, con il presidente americano Joe Biden fanno intravedere una prospettiva positiva. Il presidente Xi ha osservato, secondo il resoconto finale di Pechino, che ci sono due opzioni: «Una è quella di rafforzare la solidarietà e la cooperazione e unire le forze per affrontare le sfide globali e promuovere la sicurezza e la prosperità globali; l’altra è quella di aggrapparsi alla mentalità a somma zero, provocare rivalità e scontro e guidare il mondo verso il tumulto e la divisione». Ma, ha aggiunto Xi, «il mondo è abbastanza grande da ospitare entrambi i Paesi e il successo di un Paese rappresenta un’opportunità per l’altro».
Quello del “mondo abbastanza grande” sembra quasi uno slogan. La Terra è di tutti, se solo si troverà la strada della solidarietà e della cooperazione. Fa tornare in mente a noi italiani un vecchio slogan garibaldino, coniato dal generale Nino Bixio durante il Risorgimento italiano: “C’è gloria per tutti”. Potremmo, parafrasando Xi in stile garibaldino ed estendendo il discorso dalle relazioni bilaterali Usa-Cina ad una visione planetaria, dire che oggi: “C’è mondo per tutti”. È un annuncio positivo, inclusivo, pacifico, dal bel suono democratico ed egualitario. Il mondo è abbastanza grande per palestinesi ed israeliani, ucraini e russi, migranti africani ed europei, Nord e Sud del Globo. Siamo “Fratelli tutti”, direbbe il Papa, e tutti fratelli. Se solo i popoli fossero ascoltati.