Un articolo di: Martin Sieff

Trump cerca la pace con la Russia, affronta i partner commerciali e travolge i Democratici

Il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato dal Presidente Donald J. Trump nella serata di martedì 5 marzo è stato un’autentica prova di maestria oratoria, un vero e proprio tour de force persino secondo i suoi abituali standard di grandezza. Nel corso dell’intervento, il Presidente ha annunciato una serie di notizie incoraggianti, delineando prospettive concrete per un allentamento delle tensioni tra superpotenze e una riduzione del rischio di conflitto nucleare. Inoltre, con le sue parole, ha restituito una solida speranza di lungo periodo per il contenimento del deficit federale statunitense — un evento che non si verificava da almeno un quarto di secolo — impegnandosi, al contempo, a eliminare definitivamente centinaia di miliardi di dollari in frodi e sprechi inaccettabili dal bilancio federale.

Anche a Mosca il discorso di Trump è stato accolto con favore, non tanto per le parole pronunciate, quanto per quelle che ha scelto di non dire. A differenza dei principali interventi del suo predecessore Joe Biden, Trump ha pressoché evitato di menzionare la Russia, astenendosi dal dipingerla come la causa principale di tutti i mali, le tragedie, i disastri e le catastrofi che hanno colpito il popolo americano sin dall’alluvione di Johnstown del 1889.

Il discorso di Trump, tuttavia, ha destato preoccupazione tra i partner commerciali degli Stati Uniti, in particolare nei Paesi che, negli ultimi ottant’anni, hanno fondato la propria prosperità sull’export di prodotti industriali a basso costo verso il mercato americano, avvalendosi di sussidi statali e di misure protezionistiche interne. Nel frattempo, però, interi settori dell’industria statunitense sono andati incontro a un progressivo indebolimento, fino a sfiorare il collasso.

Il Presidente, all’età di 78 anni, ha parlato con energia, determinazione e autorevolezza per un’ora e quaranta minuti. L’anno precedente, il suo predecessore Joe Biden — insignificante, minuscolo e quasi invisibile — aveva pronunciato un discorso sullo Stato dell’Unione della durata di un’ora e sette minuti. Ma di quelle parole non è rimasta alcuna traccia nella memoria collettiva.

Come di consueto, Trump ha assunto con naturalezza il ruolo di “parafulmine” che gli è più congeniale. Il suo discorso ha mandato in estasi milioni di sostenitori fedeli, mentre tutti i liberali e i democratici ancora rimasti negli Stati Uniti — il cui numero, stando ai sondaggi, è in rapido declino — lo hanno liquidato come di cattivo gusto, ripugnante e intriso di menzogne.

A suscitare l’indignazione della schiera degli haters di Trump — specialmente tra i media liberali dell’Europa occidentale — non sono state le esagerazioni, bensì le verità incontrovertibili che il Presidente ha esposto e supportato con fatti concreti.

È indubbio che il discorso contenesse parecchie esagerazioni e imprecisioni terminologiche. Del resto, si tratta di una prassi comune tra i politici, specialmente tra i capi di Stato americani. Tuttavia, le inesattezze erano di gran lunga inferiori a quelle che Biden era solito pronunciare ogni volta che apriva bocca.

Peraltro, a suscitare l’indignazione della schiera degli haters di Trump — specialmente tra i media liberali dell’Europa occidentale, New York e Los Angeles — non sono state le bugie o le esagerazioni, bensì le verità incontrovertibili che il Presidente ha esposto e supportato con fatti concreti.

Nel corso dell’intera campagna elettorale, Trump è stato costantemente oggetto di derisione e scherno da parte dei principali media statunitensi a causa della sua promessa di porre fine al flusso di immigrazione illegale che ha travolto gli Stati Uniti negli ultimi quattro anni. Al popolo americano è stato ripetuto fino allo sfinimento che si trattasse di un progetto irrealizzabile, o al più realizzabile solo a condizione che i perfidi e intransigenti repubblicani al Congresso non osassero opporsi a una proposta di legge democratica: un progetto mastodontico e farraginoso, disseminato di lacune tanto numerose quanto i buchi in una tonnellata di formaggio svizzero.

Ebbene, come ha sottolineato Trump, nelle prime sei settimane del suo mandato l’immigrazione clandestina si è arrestata quasi per magia, senza che si sia resa necessaria l’adozione di alcuna nuova legge. È bastato riorganizzare le forze dell’ordine e le autorità preposte alla sicurezza delle frontiere statunitense, conferendo loro i poteri necessari perché possano svolgere al meglio il proprio lavoro. E così hanno fatto.

Trump ha anche annunciato che, d’ora in avanti, gli Stati Uniti avrebbero adottato una politica di tariffe reciproche senza timori né favoritismi. Qualsiasi dazio imposto da un Paese sulle importazioni di beni e prodotti agricoli statunitensi sarà contraccambiato con un’imposta di pari entità negli Stati Uniti. Le implicazioni strategiche e storiche di lungo periodo di questa politica saranno immense. Non significa affatto che gli Stati Uniti intendano nascondersi dietro a un immaginario scudo protettivo o isolarsi in una bolla separata dal resto del mondo. Un’accusa analoga venne rivolta al presidente Warren G. Harding all’inizio degli anni Venti, ma già allora si rivelò una pura e semplice menzogna. Piuttosto, ciò implica il riconoscimento da parte di Trump, espresso lo scorso mese alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco anche dal nuovo Segretario di Stato Marco Rubio — figura energica, eloquente e determinata, che gli Stati Uniti non sono un’iperpotenza globale e onnipotente. In un mondo in cui esistono altre grandi potenze, l’America deve convivere con esse – e così intende fare. Di conseguenza, l’amministrazione Trump si adopererà innanzitutto per garantire la prosperità e la sicurezza del popolo americano, senza comprometterle in nome di un presunto, ipotetico e irraggiungibile “bene del mondo”. D’altronde, quell’ipotetico e vagheggiato “bene di tutti” non è mai stato raggiunto, né potrebbe mai esserlo, attraverso un’azione unilaterale, l’inerzia o l’autosacrificio estremo degli Stati Uniti.

Il discorso sullo Stato dell’Unione ha segnato un trionfo per Trump. Il futuro immediato degli Stati Uniti e del popolo americano resta, nel bene e nel male, nelle sue mani.

L’impatto del discorso di Trump sui Democratici del Congresso degli Stati Uniti è stato epocale e stupefacente. In 39 anni di copertura giornalistica dei vari Congressi che si sono succeduti nel corso della mia lunga carriera a Washington e oltre, non ho mai assistito a nulla di simile. L’intera compagine democratica al Congresso – privata del tradizionale controllo abusivo sul Senato e sulla Camera dei Rappresentanti a seguito dei risultati disastrosi delle elezioni nazionali del novembre 2024 – è rimasta attonita, senza parole. Messi alle strette, hanno reagito con la compostezza di un marmocchio viziato di sei anni, dando vita a una delle manifestazioni di maleducazione più capricciose, ridicole e inutili della lunga e nobile storia del legislativo federale degli Stati Uniti. E proprio per questo, è stato straordinariamente divertente.

Ancora una volta i Democratici si sono lasciati trascinare nell’assurdo, nell’umiliazione autoinflitta e nel meritato disprezzo dell’opinione pubblica nazionale per mano di Ilhan Abdullahi Omar, deputata del quinto distretto del Minnesota, il cui fascino estetico non compensa certo la sua totale mancanza di intelligenza. Stando alle notizie circolate, sarebbe stata proprio lei a concepire l’idea straordinaria di far sì che i Democratici di Camera e Senato manifestassero il loro dissenso verso ogni affermazione di Trump sollevando delle racchette da ping-pong identiche, che lei stessa avrebbe provveduto a distribuire. Su ciascuna di esse campeggiava un’unica parola – “Falso” (False) – e le racchette venivano esibite ogni volta che il Presidente degli Stati Uniti pronunciava una dichiarazione.

Se i Repubblicani lo avessero voluto, avrebbero potuto rispondere a uno qualsiasi dei quattro discorsi sullo Stato dell’Unione pronunciati da Joe Biden – tutti colmi di falsità e menzogne facilmente smascherabili – esponendo un manifesto di quindici metri con la parola BUGIE (LIES), capace di riempire l’intera aula.

I Democratici hanno dato segno di unità, d’accordo. Come hanno continuato a fare ripetutamente, ossessivamente e, in ultima analisi, disperatamente negli ultimi otto anni. E sono finiti per fare il gioco di Trump. Il messaggio trasmesso dai leader nazionali dello storico Partito Democratico – quello di Franklin D. Roosevelt, John F. Kennedy e persino Bill Clinton – è stato inequivocabile: hanno dimostrato non solo di essere ripugnanti, infantili e inutili, ma anche di aver voltato le spalle alle centinaia di migliaia di onesti, rispettabili ed efficienti dipendenti del governo federale degli Stati Uniti che ora vengono licenziati dalle loro posizioni – siano esse buone o cattive, indispensabili o accessorie – con determinazione e senza esitazione. Queste persone non possono certo sperare di ricevere un adeguato sostegno o protezione da quel partito a cui sono rimasti quasi sempre fedeli e che, con lealtà, hanno finanziato per generazioni sin dall’insediamento di Franklin D. Roosevelt, avvenuto novantadue anni fa. In che cosa consisteva il messaggio di Ilhan Omar, trasmesso attraverso immagini di straordinario impatto visivo, impresse in modo indelebile nella memoria e nello sguardo del pubblico? Un pubblico inizialmente stimato in 32,23 milioni di telespettatori, cui si aggiungono almeno altri 20 milioni che hanno seguito l’evento in un secondo momento dai propri computer. La scena cui hanno assistito è stata quanto mai emblematica: i Democratici schierati in una marcia perfettamente compatta per difendere i cittadini… armati di racchette da ping pong. E questo è quanto riusciranno a fare. Non uno di quei venerabili senatori e membri del Congresso è riuscito a colpire Trump, nemmeno con una pallina da ping pong tirata attraverso l’aula. Non sorprende, dunque, che il Presidente, il Vicepresidente J.D. Vance e lo Speaker della Camera, Mike Johnson, siano apparsi in perfetta forma nel corso della serata. Ed è proprio questa loro immagine che le telecamere televisive hanno saputo cogliere e trasmettere con diligenza al mondo intero.

Ciò non significa per forza che l’assalto senza precedenti di Trump alla forza lavoro e alle funzioni essenziali del governo federale si rivelerà efficace, né che le sue strategie macroeconomiche avranno successo. Allo stesso modo, non vi è certezza che le sue politiche internazionali – spesso improntate a un ottimismo fin troppo audace, ma indubbiamente sostenute con determinazione – raggiungano pienamente gli obiettivi dichiarati, dalle guerre tariffarie con Cina, Messico e Canada alle iniziative di pace in Ucraina e a Gaza. Ciò dimostra, però, che il Presidente approccia con serietà le sue politiche e continua a perseguirle con un’energia e una fiducia incrollabili. Significa anche che il Partito Democratico, un tempo forza nazionale in grado di bloccare, ostacolare, minare o sabotare quelle iniziative – come fece instancabilmente otto anni fa e durante l’intera prima amministrazione Trump – sia ormai completamente collassato. L’unica azione di cui sembra ancora capace è quella di reggere passivamente delle racchette da ping pong per bambini.

Le conseguenze profonde di questo crollo morale e politico saranno di portata epocale. Nel giro di quattro anni, il Partito Democratico sarà decapitato a livello nazionale e darà vita a una leadership politica completamente rinnovata. Se ciò dovesse accadere, l’intero gruppo dirigente “geriatrico”, attualmente schierato con l’ex presidente della Camera Nancy Pelosi, l’ex leader democratico al Senato Chuck Schumer e il neo-senatore californiano Adam Schiff, uscirà di scena. Si ritireranno negli angoli più remoti del Massachusetts, del Connecticut o della California settentrionale a scrivere memorie interminabili che non leggerà mai nessuno. Oppure cercheranno rifugio in un esilio nazionale. O, ancora, finiranno a marcire nei penitenziari federali.

E così, i Democratici avranno finalmente una nuova generazione di leader, di gran lunga più efficienti. Del resto, come potrebbero essere più scarsi? In alternativa, potrebbe emergere un movimento nazionale del tutto nuovo, capace di ridestare il centro-sinistra americano e di sostituire completamente un Partito Democratico autocompiaciuto, corrotto e irrilevante, da tempo prigioniero del politicamente corretto. Sempre che la nazione riesca a sopravvivere.

In ogni caso, il discorso sullo Stato dell’Unione ha segnato un trionfo per Trump. Il futuro immediato degli Stati Uniti e del popolo americano resta, nel bene e nel male, nelle sue mani.

Scrittore, giornalista, analista politico

Martin Sieff