Quale sarà l’impatto sulla politica europea?
Le relazioni bilaterali tra Serbia e Ungheria hanno raggiunto il loro apice storico. Si tratta, peraltro, di relazioni dalle origini antiche, le cui radici risalgono al lontano XIV secolo. Parliamo di un’epoca in cui Stati e nazioni, così come li conosciamo oggi, non erano ancora neppure lontanamente formati. Eppure il riferimento al XIV secolo non è affatto causale: sin da allora — e arrivando ai nostri giorni, con rare eccezioni — si rileva una sorprendente assenza di tentativi di stringere alleanze militari tra i due Paesi. Certo, il recente accordo di cooperazione militare, limitato alle operazioni previste per il 2025, non implica necessariamente che gli eventi attuali si traducano in un impegno futuro più ampio e significativo. L’Ungheria è membro della NATO, la Serbia non lo sarà mai. Tuttavia, la firma di un accordo simbolico di cooperazione militare attesta non solo la solidità dei rapporti bilaterali tra i due Paesi, ma riflette altresì le dinamiche geopolitiche in atto nell’Europa sud-orientale. Si avverte infatti un diffuso senso di tensione e incertezza, alimentato dal timore di un’ulteriore avanzata della Russia in Ucraina e dalle conseguenze che un possibile riassetto territoriale dell’Ucraina potrebbe comportare per l’Europa. Se la NATO non è stata in grado di proteggere l’Ucraina, come potrà difendere Stati di minore rilevanza? E se l’Unione Europea non è riuscita a salvaguardare l’Ucraina, come pensa di mantenere le proprie posizioni in altre aree del mondo?
In attesa di vedere come andranno le cose, mentre ci si prepara ad affrontarne le possibili e conseguenze, nell’Europa sud-orientale sta prendendo forma un latente processo di destabilizzazione che, per ora, si manifesta soprattutto sul piano interno (attraverso proteste, scontri tra governo e opposizione, e una rinnovata lotta alla corruzione) più che sul livello dei rapporti interstatali. Tuttavia, non si può escludere che le relazioni interstatali possano complicarsi ulteriormente attraverso una serie di situazioni concrete. Pur reagendo principalmente a cambiamenti contingenti nell’ambito della sicurezza, gli accordi tra Serbia e Ungheria danno l’impressione, dall’esterno, che Belgrado e Budapest stiano cercando di anticipare gli eventi e di prepararsi a un “inevitabile terremoto”.
Per questo motivo, il ruolo della Serbia e dell’Ungheria nella politica continentale tende a essere sopravvalutato e alle azioni congiunte dei due Paesi spesso si attribuisce un senso più ampio e una valenza strategica. È il caso di ribadirlo: le relazioni bilaterali tra Serbia e Ungheria hanno raggiunto il loro apice storico e, in un contesto segnato dalla persistente instabilità dell’Europa sud-orientale, ciò rappresenta un risultato eccellente. Il miglioramento dei rapporti si traduce anche in una serie di iniziative congiunte, utili e vantaggiose per entrambe le nazioni. Tuttavia, finora, la collaborazione tra Serbia e Ungheria si è fondata più su una serie di reazioni che su azioni dirette. Persino il recente accordo di cooperazione militare è stato siglato in risposta a un analogo memorandum sottoscritto da Croazia, Albania e dalla cosiddetta Repubblica del Kosovo.
Un dettaglio di particolare interesse è che l’avvicinamento tra Serbia e Ungheria ha avuto inizio, di fatto, una quindicina di anni fa, incentrandosi sulla questione della sicurezza energetica. Più precisamente, l’avvicinamento si è sviluppato intorno alla realizzazione del progetto “South Stream”. L’interesse, condiviso dai due Paesi, per una collaborazione con i distributori russi e l’elaborazione di una propria strategia in materia di sicurezza energetica ha progressivamente condotto a un allineamento di posizioni e di strategie. Paradossalmente, è stato proprio il cambiamento della politica bulgara a imprimere un impulso decisivo e a conferire una dinamica del tutto nuova al processo di armonizzazione di posizioni e strategie. A un certo punto, infatti, la Bulgaria, trovatasi sotto l’evidente pressione degli Stati Uniti, ha cominciato a ritirarsi dal progetto “South Stream”. Belgrado e Budapest hanno interpretato questa svolta come una minaccia ai propri interessi. Consapevoli dei limiti di un’eventuale azione individuale, i due Paesi hanno promosso un’iniziativa congiunta a sostegno del progetto “South Stream”. Alla fine, però, è intervenuta la Turchia, e oggi ci troviamo di fronte alla realtà del “TurkStream”.
Altrettanto significativo è il fatto che la prima vittima politica dello smantellamento del progetto “South Stream”, promosso dagli Stati Uniti, sia stato il primo ministro della Macedonia del Nord, Nikola Gruevski. Sostenitore convinto della realizzazione di un’iniziativa congiunta con Serbia e Ungheria (uno dei rami del “South Stream” avrebbe dovuto attraversare proprio il territorio macedone) Gruevski ha finito per oltrepassare i limiti tollerati nei rapporti con Washington. Dopo essere stato estromesso dal potere in seguito al prolungarsi delle proteste di piazza e alla caduta provocata da una fragile maggioranza parlamentare, Gruevski è stato costretto a fuggire in segreto a Budapest, dove con ogni probabilità risiede tuttora. L’episodio ha rappresentato un chiaro segnale per Aleksandar Vučić e Viktor Orbán: i due devono “restare uniti” e “coprirsi le spalle a vicenda”. Lo sviluppo delle relazioni serbo-ungheresi è stato quindi condizionato anche dagli interessi politici personali dei due leader.
In seguito la cooperazione in ambito energetico è proseguita con la definizione di progetti per l’utilizzo di serbatoi sotterranei di gas. La Serbia ha manifestato interesse ad acquisire una quota compresa tra il 5 e il 10% della centrale nucleare di Paks (Paksi Atomerőmű), mentre continua anche la costruzione di un nuovo oleodotto. Il tema della ristrutturazione della centrale nucleare ungherese, così come l’eventualità di costruire una nuova centrale in Serbia, è diventato attuale grazie al “Green Deal” europeo e alla crescente esigenza di ridurre la produzione di energia elettrica da centrali termoelettriche. La questione della costruzione del nuovo oleodotto ha acquisito rilevanza soprattutto in seguito all’escalation della crisi ucraina e all’imposizione di sanzioni statunitensi contro l’industria petrolifera serba (i cui principali proprietari sono “Gazprom” e “Gazprom Neft”). Sebbene nel corso degli ultimi quattro decenni siano state avanzate numerose proposte per la realizzazione di nuovi oleodotti, nessuna di esse ha mai trovato concreta attuazione. Di conseguenza, la Serbia si è trovata dipendente dall’approvvigionamento di petrolio attraverso il sistema croato JANAF. Nel mutato contesto della sicurezza l’assenza di alternative rende l’attuale quadro particolarmente svantaggioso. Una dipendenza del genere appare ancora più sfavorevole alla luce della recente firma del memorandum di cooperazione tra Croazia e Albania nel settore della sicurezza militare. Per la Serbia l’unica alternativa concreta consisterebbe nel collegarsi all’oleodotto «Družba» attraverso il territorio ungherese; per l’Ungheria, questo comporterebbe l’accesso a un nuovo mercato, dove il Paese andrebbe a sostituire i concorrenti croati.
Sarà possibile, grazie alla cooperazione tra l’Ungheria e la Serbia delineare nuovi quadri di riferimento capaci di orientare, d’ora in avanti, i movimenti politici nel Sud-Est europeo?
Certamente queste nuove iniziative e progetti riflettono l’importanza delle relazioni tra Serbia e Ungheria. Sorge tuttavia una domanda inevitabile: è possibile che Serbia e Ungheria si spingano oltre? In altri termini, riusciranno queste due nazioni a definire i propri obiettivi attraverso azioni concrete, anziché limitarsi a proseguire una politica fondata sulle reazioni? Finora, la ricerca di soluzioni si è svolta prevalentemente sotto la pressione e in risposta a minacce alla sicurezza (energetica) nazionale. È possibile, grazie alla cooperazione tra i due Paesi, delineare nuovi quadri di riferimento capaci di orientare, d’ora in avanti, i movimenti politici nel Sud-Est europeo? Sebbene se ne discuta da tempo (a Bruxelles la prospettiva è percepita come una minaccia di primo piano, mentre a Mosca è accolta con grande favore) una risposta chiara, al momento, ancora non si è vista. In realtà, essa dipenderà da almeno da tre fattori. In primo luogo, dalla futura reazione e dalle prossime mosse dell’Unione Europea. La politica anti-russa perseguita dall’UE (così come le iniziative promosse in questa direzione dalle amministrazioni statunitensi di Obama e Biden) è finita per rafforzare i legami tra Serbia e Ungheria, due Paesi che legano la propria sicurezza energetica alla cooperazione con la Federazione Russa. Se l’Unione Europea continuerà a perseverare nella sua isteria antirussa (e tutto lascia presagire che sarà proprio così) anche la Serbia e l’Ungheria saranno chiamate a compiere un ulteriore passo avanti, individuando nuove modalità per tutelare i propri interessi. In secondo luogo, molto dipenderà dalla Russia: dall’esito della crisi ucraina, dal contenuto di un eventuale accordo di pace e dalla visione che delineerà il futuro assetto dell’Europa sud-orientale.
In questa regione d’Europa, fino a tempi assai recenti, la Federazione Russa ha concentrato i propri interessi prevalentemente nel settore energetico. L’evoluzione futura della cooperazione serbo-ungherese dipenderà in larga misura dall’orientamento degli interessi russi al di là della sfera energetica, una volta che il conflitto in Ucraina sarà giunto al termine e verrà siglato un accordo di pace. L’eventuale adesione di altri Stati all’“asse serbo-ungherese” dipenderà altresì dalle politiche adottate dall’Unione Europea e dalla Federazione Russa. Qualora l’“asse” si rivelasse attraente non soltanto dal punto di vista del settore energetico, ma anche sotto il profilo economico e politico, non è da escludere che altri Paesi possano scegliere di aderirvi. In questo contesto si citano sempre più spesso la Slovacchia e la Repubblica Serba; tuttavia, come dimostra l’esperienza passata, una nuova formazione subregionale di integrazione — fondata sulla cooperazione energetica, economica e politica nell’Europa sud-orientale e completamente aperta allo sviluppo di relazioni multilaterali con la Russia (in termini di distribuzione delle risorse energetiche russe, accesso al mercato russo e scambio tecnologico) — si presenta, nel suo complesso, attraente anche per la Bulgaria, la Macedonia del Nord, la Moldavia, il Montenegro e persino per la Bosnia ed Erzegovina.
Una completa trasformazione delle relazioni serbo-ungheresi potrebbe fare da esempio per altri Paesi dell’Europa sud-orientale. In terzo luogo, l’evoluzione dipenderà dalla stabilità interna di entrambi i Paesi, giacché, come già evidenziato, una latente destabilizzazione interna si percepisce nell’intera regione, manifestandosi tanto nelle piazze di Belgrado e Budapest quanto all’interno delle istituzioni serbe e ungheresi. Se nei settori energetico, politico, nella cooperazione militare e nei trasporti (come testimonia la costruzione, tuttora in corso, della linea ferroviaria ad alta velocità tra le due capitali) sono stati compiuti notevoli progressi, per quanto riguarda invece l’ampliamento della collaborazione scientifica (in particolare nel campo delle scienze sociali), l’interazione tra organizzazioni non governative e l’instaurazione delle cosiddette relazioni tra le persone, non si registra alcun avanzamento.
La solidità dei rapporti tra i due Stati dovrebbe dipendere non soltanto dalla qualità delle relazioni tra i rispettivi leader, né esclusivamente dai progetti strategici attualmente in fase di realizzazione, ma dovrebbe includere anche un altro aspetto: quello che concerne gli scambi sociali, scientifici e culturali più ampi. Forse è proprio in questa direzione che occorrerebbe muoversi per avviare una politica fondata sulle azioni invece di proseguire con una politica basata sulle reazioni.