Per vendere del gas russo all'Europa, a Trump toccherà scegliere da che parte stare.
Nelle ultime settimane il tema del possibile ritorno del gas naturale russo sul mercato europeo è diventato oggetto di vivaci discussioni.
In seguito alla storica telefonata del 12 febbraio 2025 tra il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, il possibile ritorno del gas naturale russo sul mercato europeo è diventato – in maniera del tutto prevedibile – oggetto di vivaci discussioni. Ciò si colloca, infatti, in un contesto segnato dalla prospettiva sempre più concreta della conclusione del conflitto militare in Ucraina.
L’autorevole società di consulenza Wood Mackenzie ha delineato tre possibili scenari per l’evoluzione degli eventi, a seconda dell’esito dei colloqui di pace. Il primo suggerisce che non si raggiungerà una pace rapida. Questo implica che l’Unione Europea continuerà a perseguire con fermezza la propria lotta al gas russo. Il che, a sua volta, non promette nulla di buono agli acquirenti europei, poiché questa lotta è destinata a far crescere ulteriormente i prezzi. Nel secondo scenario, quello di una pace coercitiva imposta all’Ucraina da Stati Uniti e Russia — ritenuto da Wood Mackenzie l’ipotesi più probabile — si prospetta un ritorno limitato del gas e del GNL russo sul mercato dell’Unione Europea tramite gasdotti. Infine, nel terzo scenario, caratterizzato da un accordo di pace totale e reciproco, la Russia potrebbe incrementare le esportazioni di gas attraverso gasdotti fino a 50 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2027. L’abolizione delle sanzioni consentirebbe di aumentare le esportazioni di GNL russo fino a 12 milioni di tonnellate annue, si legge nello studio.
Alcuni esperti sostengono che neanche dopo la fine del conflitto militare in Ucraina, il gas russo possa fare ritorno in Europa, a meno che, naturalmente, non accada qualche evento straordinario.
Tuttavia, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Bruxelles il 9 marzo, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha pronunciato dichiarazioni che riportano alla realtà coloro che auspicano la ripresa delle forniture di gas russo verso l’Europa. Von der Leyen ha infatti ribadito il fermo impegno dell’Unione Europea nel proseguire la propria politica di rifiuto delle risorse energetiche provenienti dalla Federazione Russa. Il giorno successivo, a far eco alle dichiarazioni della von der Leyen è stata la portavoce della Commissione Europea per l’energia, Anna-Kaisa Ikonen, la quale, interrogata sulla possibilità di ripristinare il transito attraverso l’Ucraina, ha risposto: “Siamo aperti a qualsiasi soluzione che sia conforme alla nostra iniziativa REPowerEU (adottata nel maggio 2022), mirata all’eliminazione graduale delle importazioni di energia russa”. Sebbene si sia dichiarata pronta a esplorare eventuali soluzioni per il transito attraverso l’Ucraina, Ikonen è pienamente consapevole del fatto che questa ricerca non verrà mai effettuata. Non esistono infatti volumi di gas disponibili che possano sostituire adeguatamente il gas russo nel corridoio di trasporto ucraino.
Nel frattempo, la Germania si appresta a formare un nuovo governo di coalizione e, in vista dell’avvio dei negoziati tra CDU/CSU del 10 marzo, è stata redatta una bozza di documento quadro sulla politica energetica. In particolare, i partiti mirano a ridurre i prezzi dell’energia e a promuovere la costruzione di centrali elettriche alimentate a gas dalla capacità di 20GW. Nel documento non si fa alcun riferimento al gas proveniente dalla Russia, poiché va da sé che il futuro governo tedesco non intenda ricorrervi per rilanciare la crescita economica o raggiungere gli obiettivi di politica ambientale del Paese. È impossibile immaginare che il nuovo cancelliere tedesco possa modificare la sua posizione, se non in presenza di forti pressioni esterne.
Sembra dunque che la questione sia chiusa. Ursula von der Leyen rimarrà in carica fino al 2029, e continuerà ad attenersi scrupolosamente ai “principi politici guida” stabiliti. Sta a dire che, nei prossimi anni, non ci si potrà aspettare un allentamento dell’attuale linea nei confronti del gas russo e gli eventi seguiranno il corso del primo scenario delineato da Wood Mackenzie. In altre parole, anche dopo la conclusione del conflitto militare in Ucraina, il gas russo non farà ritorno in Europa, a meno che, naturalmente, non accada qualche evento straordinario.
In Europa esistono anche forze interessate a ricevere il gas russo. Si tratta dei “dissidenti del gas”, tra cui spiccano paesi come l’Ungheria e la Slovacchia, insieme a un’ampia schiera di aziende dell’Europa centrale e orientale, i cui interessi sono stati compromessi dall’interruzione del transito attraverso l’Ucraina. Queste aziende hanno manifestato il loro dissenso rispetto alla politica adottata dalla Commissione Europea. In una lettera indirizzata alla von der Leyen nel dicembre 2024 hanno cercato di convincere la leadership della CE che privilegiare gli interessi geopolitici a scapito di quelli economici delle imprese e dei Paesi dell’Unione Europea non sia una scelta saggia. Peraltro, la stessa von der Leyen ha ammesso che la riduzione della dipendenza dal gas russo ha già causato gravi problemi energetici. Ciononostante, non mostra alcuna intenzione di cambiare rotta e ha sostanzialmente ignorato la lettera, suggerendo invece di non concentrarsi esclusivamente sulla Russia e di cercare altri fornitori. Ma dove trovarli questi nuovi fornitori, almeno per i prossimi due-tre anni?
Ed ecco che sulla scacchiera delle forze in campo tra oppositori e sostenitori del ritorno del gas russo in Europa, fa il suo ingresso un nuovo giocatore: gli Stati Uniti. Tuttavia, prima di cercare di capire a cosa porterà questa novità, vediamo quali progressi hanno ottenuto i dissidenti del gas.
Che cosa hanno ottenuto finora l’Ungheria e la Slovacchia?
La battaglia dell’Unione Europea contro l’approvvigionamento energetico dalla Russia ha compromesso gli interessi economici di diversi Paesi europei meno ricchi, specialmente dopo l’interruzione del transito di gas naturale attraverso l’Ucraina. Ungheria e Slovacchia hanno fatto leva sulla minaccia di bloccare l’approvazione delle sanzioni contro la Russia e degli aiuti destinati all’Ucraina, utilizzando questa strategia come strumento per tutelare i propri interessi energetici. Questo si è reso possibile perché le decisioni fondamentali all’interno dell’Unione Europea vengono prese attraverso il raggiungimento del consensus (o metodo del consenso).
Il 6 marzo, la Slovacchia ha minacciato di esercitare il proprio diritto di veto per bloccare l’invio di aiuti militari all’Ucraina, ottenendo così l’inclusione del punto 12 (su un totale di 13 punti) nel documento conclusivo del vertice d’emergenza degli ambasciatori dell’Unione Europea. Questo punto invitava la Commissione Europea, la Slovacchia e l’Ucraina a intensificare gli sforzi volti a individuare una soluzione praticabile alla questione del transito, includendo anche la possibilità di riprenderlo.
L’appello non ha prodotto alcun risultato pratico. La Commissione Europea ha rifiutato di fare pressione sull’Ucraina, sostenendo che la decisione relativa al transito rientri nei diritti sovrani del Paese. Va peraltro sottolineato che la direttiva è stata approvata in una sua versione “soft”, priva di richieste esplicite per il ripristino del transito, ma limitata al semplice invito a “intensificare gli sforzi”. Parte della debolezza della risoluzione risiede, peraltro, nella posizione stessa assunta dalla Slovacchia. Il primo ministro slovacco Robert Fico, ha dichiarato (probabilmente nel tentativo di non fornire all’opposizione argomenti utili per attaccare il suo governo) che il Paese riceveva, seppur alla bell’e meglio, forniture di gas attraverso l’Ungheria. Stando alle sue parole, la principale criticità riguardava esclusivamente la perdita delle entrate derivanti dal transito. Avvalendosi di questa formula, la Commissione Europea ha iniziato a esercitare pressioni sulla Slovacchia, proponendo uno schema irrealizzabile per riprendere il transito attraverso il corridoio verticale del gas. Gli impianti di stoccaggio ucraini accumulano il gas proveniente dai terminali GNL situati in Grecia e Polonia per poi inviarlo in Austria attraverso il territorio slovacco.
La Slovacchia, tuttavia, non ha abbandonato la richiesta di ripristinare il transito del gas russo attraverso l’Ucraina. Il 20 marzo Fico ha dichiarato di essere disposto a esercitare il diritto di veto su qualsiasi nuova sanzione contro la Russia, qualora questa dovesse compromettere il processo di pace.
L’Ungheria, adottando un approccio analogo, ha dichiarato che non avrebbe acconsentito all’estensione degli aiuti militari all’Ucraina senza aver ricevuto dall’Unione Europea adeguate garanzie di sicurezza energetica. La minaccia di veto si è rivelata efficace: il 3 marzo, la Commissione Europea ha consegnato all’Ungheria un pacchetto di garanzie. Tuttavia, presto è emerso che la Commissione Europea non era in grado — o non era disposta — a fornire tali garanzie. In risposta agli attacchi dei droni delle Forze Armate Ucraine contro le infrastrutture del Turkish Stream e dell’oleodotto Druzhba, l’Ungheria ha dichiarato di valutare queste azioni come veri e propri attacchi alla propria sovranità.
Il 6 marzo, nel corso del vertice d’emergenza degli ambasciatori dell’Unione Europea per l’Ucraina a Bruxelles, l’Ungheria ha compiuto il passo più deciso per tutelare i propri interessi nazionali. L’Unione Europea ha tentato di indurre la parte ucraina a interrompere i colloqui di pace e la cooperazione con gli Stati Uniti. Il Ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, ha dichiarato apertamente che non avrebbe permesso che le iniziative russo-americane venissero ostacolate in alcun modo. L’Ungheria ha dunque nuovamente posto il proprio veto al documento finale del vertice dell’UE sull’Ucraina del 20 marzo.
La frattura ideologica nell’asse euro-atlantico Washington-Bruxelles ha indubbiamente consolidato la posizione del premier ungherese Viktor Orbán, il quale si è posto come promotore delle narrazioni sostenute dall’amministrazione Trump. Orbán ha invocato una riforma dell’Unione Europea basata su nuovi principi, con l’obiettivo di ridimensionare il ruolo dell’élite burocratica della CE e restituire agli Stati le rispettive competenze che sarebbero state “illegalmente sottratte”.
Tuttavia, quelli che Orbán definisce come “gli agenti di Soros nella CE” non sembrano affatto intenzionati a cedere. In tutta risposta alle richieste di garantire la sicurezza energetica dei Paesi dell’Europa centrale e orientale e di ripristinare il transito attraverso l’Ucraina, la CE ha apertamente adottato una strategia di attendismo, avanzando promesse prive di sostanza. Nel frattempo, l’Unione Europea sostiene le forze di opposizione nel tentativo di rovesciare i governi di Slovacchia e Ungheria e ristabilire così l’omogeneità ideologica all’interno dell’Unione. Tra le misure ideate per contrastare l’opportunismo, si sta valutando la possibilità di abbandonare la clausola del consensus nel processo decisionale relativo alle questioni fondamentali, privando i singoli Paesi del diritto di voto. Questo significa che la questione del gas e degli altri vettori energetici provenienti dalla Russia ha messo in discussione uno dei principi fondamentali del processo decisionale dell’Unione Europea: il consensus.
Trump non è contrario a consentire l’ingresso in Europa di volumi di gas dosati dalla Federazione Russa.
Poco dopo il suo insediamento, Trump ha annunciato a sorpresa la propria disponibilità ad acquistare petrolio e gas naturale dalla Russia. La dichiarazione ha destato stupore poiché, durante il suo primo mandato presidenziale, Trump si era apertamente opposto alle forniture di gas naturale russo destinate all’Europa. Fu proprio sotto la sua amministrazione che vennero adottate le prime sanzioni contro gli idrocarburi provenienti dalla Federazione Russa. Cosa è cambiato, dunque, rispetto ad allora?
Ho fatto qualche considerazione in merito alla questione. Anzitutto, gli Stati Uniti hanno raggiunto il loro obiettivo. Con il sostegno attivo dell’Unione Europea, il GNL statunitense ha occupato quella nicchia nel mercato europeo che un tempo era in mano ai gasdotti russi. Ora Trump si è trovato ad affrontare una sfida completamente diversa: garantire il rispetto degli impegni assunti nei confronti degli alleati europei, quando la realizzazione dei progetti di liquefazione negli Stati Uniti ha subito ritardi di diversi anni rispetto alle tempistiche inizialmente previste.
Le cause del ritardo sono molteplici e includono i problemi con gli appaltatori, molti dei quali non sono riusciti a raggiungere i propri obiettivi a causa della pandemia di Covid-19, l’aumento dei costi e dei tassi di interesse, e la moratoria imposta da Biden sul rilascio di nuove licenze per l’esportazione di GNL. Un ulteriore ostacolo si è presentato a causa del rifiuto dei partner europei e asiatici di sottoscrivere contratti di fornitura a lungo termine con i terminali, rendendo impossibili le decisioni definitive sugli investimenti. Senza questo tipo di contratti, infatti, è semplicemente impossibile ottenere finanziamenti a lungo termine dalle banche. Di conseguenza, quella nuova ondata di progetti statunitensi di GNL che avrebbe dovuto soddisfare la crescente domanda globale già nel 2025, come fu inizialmente previsto, è stata rinviata al periodo compreso tra il 2027 e il 2029. Perciò Trump ha bisogno di garanzie, nel caso che il petrolio e il gas statunitensi non riescano, da soli, ad adempiere agli impegni assunti nei confronti dell’Europa.
A fungere da garanzia per le forniture statunitensi di GNL all’Europa potrebbe essere proprio il gas russo e una delle stringhe ancora intatte del Nord Stream 2, con una capacità di 27,5 miliardi di metri cubi. La riattivazione di questa stringa per le forniture di gas russo con la mediazione di società americane non comprometterebbe in modo significativo la posizione dominante degli Stati Uniti sul mercato europeo. Secondo le stime della Commissione Europea, nel 2021 la Russia rappresentava il 45% delle importazioni complessive dell’Unione Europea; nel 2024 questa quota è scesa al 19%, per poi ridursi ulteriormente al 13% dopo l’interruzione del transito attraverso l’Ucraina.
L’interesse per il gas proveniente dalla Federazione Russa, inteso come una sorta di garanzia, non rappresenta un’eccezione. Trump ha dichiarato di non avere bisogno del petrolio canadese, ma di non essere disposto a rinunciare al gas proveniente dallo stesso Paese. E, notizia più recente, gli Stati Uniti non esitano a sostenere selettivamente progetti di GNL su scala globale. L’amministrazione Trump, infatti, ha concesso un prestito di 4,7 miliardi di dollari alla francese TotalEnergies per un progetto di GNL in Mozambico.
La questione russa rappresenta tuttavia un caso particolare, e Trump sarà chiamato ad affrontare negoziati difficili per regolare i rapporti con Mosca, degenerati sotto l’amministrazione Biden fino a una guerra per procura. È indubbio che la parte russa abbia sollevato con l’amministrazione presidenziale statunitense la questione di una qualche forma di compensazione per il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream.
L’aspetto commerciale del controllo esercitato dagli Stati Uniti sui flussi di gas per l’Europa.
La seconda telefonata di Trump a Putin, avvenuta il 18 marzo, ha mostrato chiaramente come la sfera degli interessi economici statunitensi non si limiti ai metalli delle terre rare dell’Ucraina, ma si estenda anche al suo settore energetico, incluso il sistema di trasporto del gas. A conclusione dei negoziati, la Russia si è impegnata a imporre una moratoria di 30 giorni sugli attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. In seguito, anche l’Ucraina ha aderito alla moratoria.
Trump non sarebbe stato Trump se la vendita di gas russo, camuffata da pseudo-gas americano, non si fosse trasformata in un affare redditizio. In teoria, questo schema non è particolarmente vantaggioso per la Russia, ma è comunque preferibile ai gasdotti inattivi. In passato, la Commissione Europea aveva categoricamente respinto l’idea di ripristinare le esportazioni di gas russo presentato sotto forma di prodotto di un altro esportatore. All’epoca, però, si trattava di gas pseudo-azero; se stavolta si tratterà di gas pseudo-americano, è difficile che l’Europa possa rifiutare. Il costo del transito attraverso il gasdotto potrebbe diventare una possibile fonte di reddito per le società statunitensi. Ciò avverrà se gli investitori americani diventeranno comproprietari del gasdotto North Stream 2 o dei gasdotti di esportazione del gas attraverso l’Ucraina. Questo andrebbe anche a garantire un funzionamento affidabile di tali gasdotti.
Del resto, è decisamente più facile riprendere le esportazioni di gas dalla Russia attraverso il corridoio ucraino che tramite i Nord Streams, considerando che gli acquirenti, Ungheria e Slovacchia, appoggiano pienamente la ripresa di queste forniture. Nel caso dei Nord Stream Uno e Due, invece, sarebbe stato necessario superare l’opposizione tedesca. La predisposizione di Trump alle soluzioni rapide e dirette è ben nota. Non è dunque un caso che il 22 marzo, pochi giorni dopo la telefonata di Trump e Putin, le forze armate ucraine abbiano colpito il gasdotto Sudzha, che garantiva il trasporto di gas naturale dalla regione russa di Kursk all’Europa fino al 31 dicembre 2025. Lo scopo di questa azione frettolosa è stato impedire un rapido ripristino del transito del gas dalla Russia verso l’Ungheria e la Slovacchia. Ricordiamo, peraltro, che Trump intende firmare un accordo globale per la cessazione delle ostilità entro il 20 aprile, giorno di Pasqua.
Non sono previste soluzioni semplici e veloci.
Il tema della riattivazione del gasdotto North Stream 2 con la partecipazione di società americane è stato ampiamente trattato da un flusso di articoli pubblicati sui principali media occidentali. Tuttavia, tutte le persone menzionate in questi testi hanno smentito qualsiasi coinvolgimento nei negoziati. Venerdì 14 marzo, il vice primo ministro russo Alexander Novak ha respinto con fermezza ogni voce riguardante un’eventuale partecipazione degli Stati Uniti ai progetti del Nord Stream, dichiarando ufficialmente che “la questione della ripresa dell’operatività dei Nord Streams non è, al momento, attuale”.
In effetti, la risoluzione pacifica del conflitto ucraino è una delle priorità all’ordine del giorno, ma è irrealistico aspettarsi un allentamento delle sanzioni antirusse da parte degli Stati Uniti. Al contrario, queste ultime potrebbero persino essere inasprite per costringere la Russia ad accettare un accordo sull’Ucraina alle condizioni degli americani. Non dimentichiamo che il Nord Stream 2 resta sottoposto alle sanzioni imposte personalmente da Trump nel 2017, mentre il sostegno militare all’Ucraina prosegue ininterrottamente. La Russia, dal canto suo, insiste su soluzioni sistemiche al conflitto ucraino, rifiutando categoricamente una pace ottenuta sotto coercizione. Piuttosto, appare plausibile la realizzazione del secondo scenario ipotizzato da Wood Mackenzie, che prevede una pace imposta all’Ucraina attraverso un accordo tra Stati Uniti e Russia.
Dietro l’Ucraina, priva di reale autonomia decisionale, si celano i globalisti europei, impegnati a sabotare gli sforzi di pace degli Stati Uniti insistendo su uno scenario di “pace coercitiva”. Trump ha già scelto di schierarsi con la Russia, escludendo deliberatamente i leader europei dai negoziati mirati a porre fine al conflitto. Questo, tuttavia, non appare sufficiente, poiché l’opposizione alle iniziative di Trump da parte europea si sta intensificando su tutti i fronti. La Russia non appartiene all’Occidente globale, ma non costituisce per esso una minaccia paragonabile a quella rappresentata dai globalisti europei. Solo un ulteriore avvicinamento alla Russia, considerata come alleato situazionale, insieme al sostegno delle forze conservatrici all’interno della stessa Unione Europea, quelle più ideologicamente vicine a Trump, potrà contrastare efficacemente queste minacce sempre più pressanti.
Ed è vero che il problema del Nord Stream 2 e del transito attraverso l’Ucraina, al momento, non è attuale. Tuttavia, il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin è un uomo che non getta parole al vento né parla più del dovuto. Il 13 marzo, nel corso di una conferenza stampa congiunta con il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, Putin ha osservato, come di sfuggita, che “se gli Stati Uniti e la Russia troveranno un accordo di cooperazione energetica, sarà possibile garantire un gasdotto all’Europa, a vantaggio dell’Europa stessa, che potrà ricevere gas russo a basso costo”.