Dopo la morte di Yahya Sinwar, quale è la strategia israeliana? Il Premier punta all'annichilimento dell'Iran e alla creazione di un nuovo assetto geopolitico. Un cambiamento che prima del sette ottobre aveva una via pacifica attraverso gli accordi con Arabia Saudita e altri Paesi e che ora persegue con le armi. Unica costante: il mancato riconoscimento della Palestina che impedisce ogni evoluzione reale
Dopo la morte di Yahya Sinwar, il capo di Hamas, rimasto ucciso in uno scontro nel sud di Gaza, qual è ora la strategia di Israele? La nuova era mediorientale. Il mantra che è risuonato dal discorso di Benjamin Netanyahu lo scorso 27 settembre all’Assemblea Generale dell’Onu, non è nuovo nelle parole del premier israeliano. Un anno fa, dallo stesso podio, quasi venti giorni prima che la storia mediorientale cambiasse per sempre a seguito del massacro del sette ottobre, Netanyahu aveva usato le stesse parole.
Il premier aveva preso la parola allora, auspicando di chiudere il cerchio e mettere l’ultimo pilastro fondante del nuovo ordine mediorientale: la pace con l’Arabia Saudita.
Netanyahu, grazie anche all’amministrazione di Donald Trump, aveva già raggiunto un importante traguardo con gli Accordi di Abramo del 2020. Per la prima volta dopo la pace firmata prima con Egitto nel 1979 e poi con la Giordania nel 1994, Israele siglava accordi con Paesi arabi. I primi furono Emirati Arabi Uniti e Bahrein, seguiti da Sudan e Marocco. Il vero obiettivo era Riad e i segnali di un avvicinamento c’erano tutti.
Lo stesso principe ereditario Mohammed Bin Salman, poco prima dell’Assemblea Onu, aveva detto che l’accordo con Israele era “ogni giorno più vicino”. C’erano di mezzo interessi strategici ed economici importanti non solo con Israele, ma anche con gli Stati Uniti, che avrebbero “premiato” la scelta saudita con una mano al programma nucleare civile della monarchia del Golfo. Non solo: qualche mese prima, al G20 di New Delhi, era stato lanciato il progetto del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa che vedeva l’approvazione, tra gli altri, sia dei sauditi sia degli israeliani. Anche per creare un’alternativa alla via della seta cinese.
Proprio con la mappa di questo corridoio, Netanyahu, il 22 settembre 2023 si presentò sul podio del Palazzo di Vetro. “Una tale pace – aveva detto Netanyahu – contribuirà molto a porre fine al conflitto arabo-israeliano. Incoraggerà altri stati arabi a normalizzare le relazioni con Israele. Migliorerà le prospettive di pace con i palestinesi. Incoraggerà una più ampia riconciliazione tra ebraismo e islam, tra Gerusalemme e la Mecca, tra i discendenti di Isacco e i discendenti di Ismaele”.
Una delle caratteristiche tipiche del Nuovo Medio Oriente era che le alleanze non si basavano esclusivamente su linee religiose o etniche
Di nuovo Medioriente aveva già parlato Shimon Peres, colui che con gli accordi di Oslo aveva tentato di cambiare l’area con un processo che, non solo dopo trent’anni dall’attuazione ma dalla sua approvazione, si è dichiarato fallace. Ma aprì una breccia, anche se Israele negli anni ha assistito da spettatore al cambiamento del Medioriente, dovuto più a fattori interni ed esterni ai Paesi, come l’occupazione americana dell’Iraq nel 2003, l’ascesa dell’Iran come potenza regionale in cerca di egemonia e potenza nucleare e l’ondata di rivoluzioni della Primavera araba che hanno scatenato il caos in diversi paesi principali (Egitto, Siria) e minori (Libia, Yemen, Tunisia, Bahrein).
Una delle caratteristiche tipiche del Nuovo Medio Oriente era che le alleanze non si basavano esclusivamente su linee religiose o etniche. Diversi stati sunniti, come Giordania, Arabia Saudita ed Egitto, hanno mostrato preoccupazione dell’Iran e dell’Islam sciita e dei suoi alleati, mentre gli Stati sunniti del Qatar e della Turchia, anche oggi, mantengono buoni rapporti con l’Iran. Inoltre, il mondo arabo sunnita unì le forze contro il Qatar (ci fu una crisi con boicottaggi e isolamento dal 2017 al 2021), a causa del sostegno di Doha alla Fratellanza Musulmana e alla sua politica filo-iraniana, ma anche contro una serie di diverse organizzazioni sunnite che sono considerate gruppi terroristici, come al-Qaeda, lo Stato islamico, la Fratellanza Musulmana, Hamas e altro ancora.
Quest’anno, dopo più di 365 giorni dal sette ottobre, Netanyahu è tornato al Palazzo di Vetro con la stessa mappa dell’anno precedente, parlando di mappa della benedizione, contrapponendola ad un’altra dove in nero c’era l’Iran e i Paesi sodali (Siria, Libano Iraq), chiamandola della maledizione.
Netanyahu si è convinto che il processo politico e di pace che aveva intrapreso con gli accordi di Abramo, per essere attuato, deve prevedere una cosa: l’annichilimento dell’Iran
Il sette ottobre ha di fatto variato il processo di cambiamento mediorientale spingendolo su un altro piano. Netanyahu si è convinto che il processo politico e di pace che aveva intrapreso con gli accordi di Abramo, per essere attuato, deve prevedere una cosa: l’annichilimento dell’Iran che, a suo giudizio, può avvenire solo militarmente.
Il cambiamento di paradigma avviene per due ragioni fondamentali. In primo luogo, dopo il massacro del sette ottobre a opera di Hamas, Israele è stato attaccato ogni giorno, con più di diecimila razzi totali, da Hezbollah, dal Libano, obbligando sessantamila persone e più che vivono al confine a lasciare le loro case. Successivamente, Israele ha subito attacchi dagli Houthi dello Yemen, dalle milizie sciite di Siria e Iraq, dallo stesso Iran per due volte con trecento razzi. E’ chiaro che Netanyahu, per eliminare “l’asse della resistenza”, che unisce sciiti e sunniti e che mina all’esistenza stessa del Paese ebraico, deve eliminare l’Iran.
L’avvicinamento statunitense a Teheran con il paventato alleggerimento delle sanzioni, sempre avversato da Gerusalemme, ha rinvigorito il regime degli Ayatollah, e si è mostrato fallace. Dopotutto, sono gli stessi sciiti a dare “la scusa” a Israele per ritenersi in pericolo, perché minacciati dall’Iran e dai suoi sodali. Se infatti Hamas avesse agito per il popolo palestinese (la mia convinzione è che abbia agito per accreditarsi come unico difensore dei palestinesi in contrapposizione ad una Autorità nazionale Palestinese debole, ma in definitiva non ha a cuore il destino dei cittadini visto l’uso da scudi umani che ne fa), non si spiega perché Hezbollah abbia agito contro Israele se i palestinesi in Libano sono trattati da paria.
Stesso discorso vale per gli altri Paesi e gruppi, uniti non da motivazioni politiche di “liberazione” ma di annientamento della mosca bianca israeliana.
Il secondo motivo risiede in un errore fondamentale di Israele e cioè aver pensato di agire anche politicamente al cambio in Medioriente senza la possibilità di uno Stato Palestinese. Nonostante i proclami, neanche i Sauditi si sarebbero mai battuti a sangue per la Palestina se avessero dovuto scegliere tra accordi commerciali e di difesa israelo-americani e loro. Ma la presenza nel governo israeliano di fondamentalisti di destra totalmente contrari alla nascita dello Stato palestinese, non ha favorito il cambiamento. Cambiamento che neanche la guerra può aiutare.