Un articolo di: Alessandro Banfi

Il mondo in guerra e de-globalizzato ha perso ogni volontà di darsi regole comuni. E' il mondo dell'America First, dei populismi e dei nazionalismi. Un mondo che in un senso blinda le frontiere, dall'altro le ignora: in un gigantesco homo homini lupus

Il globo impazzito della “guerra mondiale a pezzi” è una Terra dove ogni Stato fa da sé e dove ciò che sembrava fissato in regole comuni è saltato

L’ultimo episodio è avvenuto in Congo. I guerriglieri ribelli dell’M23 (il Movimento del 23 marzo) hanno conquistato Goma, capoluogo del Nord-Kivu, la provincia all’estremo est della Repubblica democratica del Congo. I ribelli hanno avuto l’aiuto di almeno 4mila soldati dell’esercito del Ruanda e hanno così messo le mani su una parte del Paese ricca di oro, rame, cobalto e di diverse terre rare, fondamentali per l’hi-tech, la difesa e le energie rinnovabili. L’M23 è, come si dice, una milizia proxy del Ruanda. Di fatto il piccolo Ruanda conquista parte dell’immensa e caotica Repubblica democratica del Congo, minata dalla corruzione e dalla miseria. Un commentatore del canale francese Europe 1 ha detto che è sempre stata una “guerre qui n’intéresse guère”, una guerra che interessa poco o niente. Non c’è autorità mondiale che possa fermare l’offensiva, né relazioni multilaterale messe in crisi dalla guerra. Il globo impazzito della “guerra mondiale a pezzi” (copyright papa Francesco) è una Terra dove ogni Stato fa da sé e dove ciò che sembrava fissato in regole comuni è saltato. Diciamoci la verità: l’Occidente ha perso una grande occasione dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e dell’Unione Sovietica nel 1991. Dopo una cinquantennale divisione fra Est ed Ovest, ci sono state grandi opportunità per costruire nuove regole di convivenza e sviluppo in un mondo multilaterale e plurimo. Non è andata così. L’aspirazione a ridurre il mondo ad un dominio unipolare è stata la tentazione che alla lunga ha creato una instabilità sempre maggiore, fino all’esplosione degli interessi nazionali. Onestamente, chi pensa davvero che oggi il mondo sia diviso fra la sfera d’influenza del G7 e quella dei BRICS? È più realistica l’immagine di un tutti contro tutti…

La seconda presidenza di Donald Trump è iniziata all’insegna dell’America First in politica estera: il Canada dovrebbe diventare il 51esimo Stato a stelle e strisce, la Groenlandia dovrebbe essere sganciata dalla Danimarca, Panama tornare sotto l’influenza Usa. The Economist l’ha chiamata “madness diplomacy”, la diplomazia pazzoide. Ma, citando il grande Bardo, dovremmo dire che “c’è del genio in quella follia”. The Donald applica infatti la visione dell’interesse nazionalistico portato all’estremo, in una strategia politica che evita di confrontarsi con gli organismi internazionali, verso cui ha un’istintiva idiosincrasia: dall’ONU all’OMS. Il suo modello di relazioni tra Stati è quello del rapporto B2B, bilaterale, come fra business men. Come ha scritto Le Monde Diplomatique, usando la metafora dei giochi da tavola, è l’affermazione del “Monopoli”, che prende il posto del “Risiko”, tutto guerre e carri armati, di Joe Biden.

Mentre esodi e guerre scorrono sul grande schermo dell’attualità le classi dirigenti politiche mondiali sono ossessionate dal tema dei migranti

L’ideologia populista, nazionalista, non può avere un aspetto internazionalista: ecco perché è un’illusione pensare che ci possa essere un’alleanza organica fra le destre europee, israeliane o magari africane e i repubblicani MAGA statunitensi. Sarà sempre l’interesse nazionale ad avere il primo posto, in ogni controversia internazionale. Thomas Hobbes lo aveva definito il mondo degli “homo homini lupus”, una Terra dove la legge del più forte tenda a prevalere. Torneranno mai il multilateralismo, la cooperazione, la globalizzazione? Difficile oggi immaginare come.

I due conflitti che si sono sviluppati nell’ultimo anno sono in questa logica: la Russia combatte da tre anni per “liberare” il Donbass e tracciare un nuovo confine dell’Ucraina. Israele ha bombardato e occupato per quindici mesi il territorio di Gaza. Per non parlare del Golan occupato approfittando della caduta di Bashar Assad in Siria. I “limes”, i confini sono tornati ad essere centrali nelle contese internazionali. Così come le migrazioni di profughi hanno segnato un record assoluto negli ultimi anni. Esodi e guerre scorrono sul grande schermo dell’attualità: dall’Europa all’Africa.

Le classi dirigenti politiche mondiali sono ossessionate dal tema dei migranti. Gli inglesi hanno provato, con il premier Rishi Sunak a deportare i richiedenti asilo, in gran parte albanesi, in Ruanda (che ovviamente aveva accettato) e sono stati fermati dalla magistratura. Il governo italiano ha cercato per tre volte di portare in Albania richiedenti asilo provenienti dal Bangladesh e dall’Egitto. Ma per tre volte i giudici, prima della Sezione Immigrazione del Tribunale e poi della Corte d’Appello di Roma, hanno negato le legittimità del trasferimento.

In Germania, l’AfD (Alternativa per la Germania) ha conquistato una larga fetta dell’elettorato nei nuovi Länder, ottenendo però un sostegno significativo anche nei vecchi Länder. Il partito promuove un programma ultranazionalista, incentrato sulla chiusura dei confini – il messaggio principale della candidata al cancellierato Alice Weidel. Quest’ultima ha mitizzato l’anno 2015, quando l’ex cancelliera Angela Merkel decise di aprire i confini ad un milione e mezzo di siriani, una scelta che, secondo Weidel (sostenuta a livello internazionale da Elon Musk), avrebbe causato instabilità politica, economica e problemi di sicurezza interna. In realtà, questa narrazione dell’“apertura fatale dei confini” è una metafora retorica che anche Sahra Wagenknecht, candidata del BSW (Patto Sahra Wagenknecht) ed ex esponente dei Linken, ha adottato. Tuttavia, è bene precisare che i confini non erano “chiusi” nemmeno prima; al massimo, si potrebbe accusare Merkel di non averli chiusi successivamente. Si tratta dunque di una retorica manipolativa e demagogica, che distorce i fatti e rischia di oscurare i contenuti positivi proposti dalla stessa Wagenknecht, soprattutto sul tema della profezia della pace. Questo è uno dei motivi per cui la Wagenknecht, durante le elezioni europee, è riuscita a ottenere di colpo il 6% dei voti a livello nazionale, con percentuali ancora più alte nei nuovi Länder.

L’AfD o il BSW non sono partiti antidemocratici, così come non lo è il partito repubblicano che ha sostenuto Donald Trump negli Stati Uniti. E tuttavia la tendenza è quella del perseguimento dell’interesse nazionale che ha eroso nella mentalità comune dei popoli il principio solidaristico e tendenzialmente federale dell’Europa unita. Ci vorrebbe più Europa e più unità, ma elettorati e leader vanno diametralmente dalla parte opposta.

“Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’Unione può farli durare”. Era la primavera del 1954 quando Luigi Einaudi scriveva queste parole. Gli ultimi quattro anni hanno dimostrato in modo chiaro che non è la protezione americana, non è la NATO, a garantire il ruolo europeo e che Einaudi (e Alcide De Gasperi) avevano non ragione, ma ragionissima.

È un paradosso: il mondo va a pezzi e tutti gli interlocutori dell’Europa preferiscono parlare coi singoli Stati (che non rammentano quel “polvere senza sostanza”) e a loro volta i leader UE si illudono di avere vantaggi da rapporti bilaterali. Con Donald Trump e con tutti gli altri.

Al confronto degli omologhi UE Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, che partecipa ai BRICS di Kazan, pur essendo membro NATO, come ha fatto la scorsa estate, o che acquisisce il controllo di almeno un terzo della Siria, grazie al nuovo regime di Al Jolani, appare un gigante della scena internazionale. Non ditelo a Ursula, ma Bruxelles conta sempre meno.

Giornalista, Autore tv

Alessandro Banfi