Un articolo di: Andrea Beltratti

La nuova politica commerciale degli USA ha scatenato il panico nei mercati ma si trascurano due aspetti: la possibilità di negoziare e l'elasticità della domanda. Ci vorranno anni per trovare nuovi equilibri? Probabilmente no: il sistema economico ha dimostrato più volte di essere in grado di adattarsi alle trasformazioni

La mattina del 2 luglio 1996, il SETI (il programma di Ricerca di intelligenze extraterrestri) capta un rumore che potrebbe rappresentare il segnale proveniente da una forma di vita aliena. Si tratta effettivamente di alieni che vogliono distruggere la Terra. Il 4 luglio, Independence Day, una brillante idea consente all’umanità di sconfiggere gli extra-terresti. Il 2 aprile 2025, il Presidente degli Stati Uniti dichiara il liberation day, giorno in cui si applicano dazi commerciali nei confronti del resto del mondo (tranne la Russia ma inclusi luoghi popolati solo da pinguini) che gli investitori nei mercati azionari temono possa essere la causa per una recessione globale. In tempi di fake news e di false ricostruzioni della storia è meglio specificare: uno è un film di fantascienza, l’altro sembra un film dell’orrore ma è invece la storia contemporanea. Ma il futuro è necessariamente scritto?

I dazi di Trump. Cominciamo con ordine. La nuova amministrazione americana ha deciso di colpire con una tassa i beni esportati negli Stati Uniti. Un bicchiere di barolo in un ristorante di New York costa trenta dollari. Con una sovrattassa del 20% il prezzo dovrebbe, a parità di condizioni, essere uguale a trentasei. Le misure sono diverse da Paese a Paese (il Vietnam, Paese in cui gli americani non hanno mai avuto grande fortuna, è il più colpito). A complicare ulteriormente il quadro c’è la possibilità di “negoziazione”, dichiarata ufficialmente dalla portavoce della Casa Bianca: il telefono è sempre libero per una “buona negoziazione”. Negoziare simultaneamente con tutto il mondo è una bella sfida per chiunque e possiamo quindi prevedere mesi di intense comunicazioni su tutto il pianeta.

La sfida del Presidente è quindi quella di migliorare dal punto di vista economico la situazione delle famiglie americane più disagiate

Perché? Una domanda interessante riguarda le motivazioni dell’amministrazione americana. Probabilmente non sono di carattere teorico: l’economia insegna che ci sono numerosi vantaggi nel libero scambio. Forse sono di carattere politico. Il Presidente Trump ha vinto le elezioni contro molti pronostici, ma forse mai come in questo caso la colpa è di chi ha perso. Il Partito Democratico ha progressivamente perso il contatto con una parte dell’elettorato meno interessata all’equità, alle esternalità e alle sfide sociali e ambientali e più preoccupata per le proprie condizioni di vita. Quando pensiamo agli Stati Uniti abbiamo in mente il landscape di New York e la produttività delle Big Tech e non ci ricordiamo che in molte città le condizioni di sicurezza sono peggiorate, l’aumento dei redditi non è stato sufficiente a compensare l’aumento del costo della vita e molte aziende manifatturiere hanno chiuso per la concorrenza di Cina e Vietnam. L’Amministrazione ritiene quindi che i dazi siano uno strumento di reshoring, per riportare negli Stati Uniti produzioni di beni che progressivamente sono stati localizzati in Paesi a minor reddito perché il loro valore aggiunto era limitato. Ma un valore aggiunto limitato può sempre essere abbastanza alto per creare un posto di lavoro in uno Stato americano il cui reddito non è cresciuto negli ultimi anni. La sfida del Presidente è quindi quella di migliorare dal punto di vista economico la situazione delle famiglie americane più disagiate che costituiscono la base per i voti futuri. Possono i dazi consentire di raggiungere l’obiettivo nei circa sedici mesi che ci separano dalle elezioni di mid-term? La risposta a questa domanda non ce l’ha nessuno, per questo la scommessa politica è molto rilevante.

La reazione dei mercati globali. I mercati finanziari hanno votato il 3 e il 4 aprile, con una reazione di panico come non si vedeva da anni, forse nelle prime fasi della pandemia o con il fallimento di Lehman Brothers. Perdite superiori al 10% in due giorni sono il segno di una preoccupazione incontrollata.  Che cosa si teme? In sostanza, una sola parola: la recessione. Una recessione mondiale che non potrà essere impedita dalle banche centrali (seppure queste abbiano adesso qualche arma a disposizione in più grazie ai successivi aumenti dei tassi di interesse degli ultimi tre anni) e sarà difficilmente arginabile dalla politica fiscale specialmente per quei paesi caratterizzati da un elevato rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Una recessione potenzialmente prolungata a causa degli impatti sulle supply chain globali associate alla rivoluzione del commercio internazionale, con equilibri finali impossibili da stimare e difficili da prevedere.   

È plausibile pensare che il commercio internazionale si arresterà e che ci vorranno anni per trovare nuovi equilibri?

Questa volta è lo stesso: questa volta, la reazione dei mercati è diversa dalla storia? Come sempre, il panico è legato all’incertezza, alla difficoltà di definire scenari con associate probabilità di realizzazione. Il comportamento di investimento in queste fasi è senz’altro più difficile, ma se possiamo individuare un errore che si ripete è quello di ignorare scenari alternativi in cui il sistema economico è in grado di adattarsi alle trasformazioni. Negli anni Settanta il mercato si preoccupò del prezzo del petrolio e dei costi per le aziende manifatturiere, sottovalutando la capacità di innovazione tecnologica e adattamento ai nuovi prezzi relativi. Durante la crisi globale del credito del 2008 gli investitori sopravvalutarono le perdite e sottovalutarono la resilienza del business model delle banche allo choc. La crisi periferica del 2011-2013 vide uno scetticismo diffuso, e ingiustificato ex post, in merito alla capacità di resistenza delle economie del sud d’Europa. Il seguente azzeramento dei tassi di interesse sino al 2020 indusse gli investitori a penalizzare le banche con un business model più tradizionale perché si pensava che i tassi sarebbero rimasti a zero per sempre (ricordiamo tutti lo slogan “lower for longer”). La pandemia causò choc di mercato sottovalutando la capacità delle aziende, delle istituzioni e delle persone di adattarsi a scenari nuovi. Insomma, l’errore è sempre uguale, e questa volta non è diverso.    

Che fare? Pur riferendoci agli Stati Uniti facciamoci una domanda di leniniana memoria. È plausibile pensare che il commercio internazionale si arresterà e che ci vorranno anni per trovare nuovi equilibri? A mio parere no. La reazione eccessiva alle azioni degli Stati Uniti trascura la possibilità di negoziare e quindi di attenuare i danni. Si trascurano anche le capacità delle aziende di individuare nuovi mercati e di adeguare i business model. Ci si dimentica della cosiddetta “elasticità della domanda”: siamo così certi che il commensale a New York sia disposto a spendere trenta ma non trentasei dollari per un ottimo bicchiere di barolo “made in Piedmont”? Dobbiamo certamente preoccuparci di reagire con fermezza (ma non ledendo i nostri interessi) e aiutare le imprese e le famiglie che potrebbero avere difficoltà di breve periodo. Per guardare al futuro con maggior ottimismo ripensiamo però alle lezioni di base della microeconomia, e troveremo immediato conforto per bere nelle nostre case o ristoranti un ottimo vino italiano senza temere la fine del mondo. Come dice Sara Connor nella scena finale di Terminator 2, “il futuro non è scritto”.

Economista, Academic Director EMF - Executive Master in Finance

Andrea Beltratti