Nella prospettiva di Trump, le organizzazioni culturali dominanti, giornalistiche, mediatiche, accademiche, editoriali sono un nemico della grande trasformazione che è in corso, perché trasmettono ripetitivamente e acriticamente un sapere invecchiato e fazioso, fortemente viziato da pregiudizi e interessi.
Il vicepresidente degli Stati Uniti, JD Vance (nella foto) lo ha spiegato chiaramente e ampiamente già in un discorso del 2021 alla National Conservatism Conference: “Le università sono il nemico”. Donald Trump è passato dalle parole ai fatti: ha nominato Linda McMahon, impresaria di wrestling, come nuova responsabile del Ministero per l’istruzione, con l’incarico di abolire il ministero stesso. Ha avuto larga eco la decisione di tagliare circa 400 milioni di dollari in sovvenzioni e contratti federali alla Columbia University, una delle università più prestigiose degli Stati Uniti. Questo scontro con le università e con gli intellettuali è al cuore del trumpismo da diversi anni.
Nella prospettiva di Trump e Vance, le organizzazioni culturali dominanti, giornalistiche, mediatiche, accademiche, editoriali sono un nemico della grande trasformazione che è in corso, perché trasmettono ripetitivamente e acriticamente un sapere invecchiato e fazioso, fortemente viziato da pregiudizi e interessi. Gli elettori americani hanno votato anche su questo punto, che non è passato inosservato durante la campagna elettorale.
Le università sono spazio di inquietudine, oltre che di sacrosanta dedizione allo spiritualismo, come nelle prime universitas studiorum medievali, che nascono intorno a cattedrali e monasteri, mutuando la parola “università” da un termine che allora designava un insieme di persone accomunate dalla prestazione dello stesso servizio. Nonostante la nobiltà dell’intento originario, si riscontrò presto nelle università europee una propensione cromosomica al corporativismo, alla goliardia e a questioni cervellotiche di pura lana caprina. Esempio è Parigi, dove, nel quartiere latino, il canonico Roberto di Sorbon fondò uno di quei tanti collegi che dappertutto cominciarono a fiorire con il risveglio comunale, non sempre all’insegna di una concordia celestiale. Poco dopo la fondazione, la Sorbona si ritrovò con studenti che schiamazzavano, si ubriacavano, rubavano; gli abitanti della città si coalizzavano per spedizioni punitive contro di loro. In Homo ludens, Johan Huizinga ha descritto l’università medievale come un assemblaggio, esuberante di baldorie ludiche, spesso un’accolita di facinorosi, di spiantati e di sbandati.
La chiusura corporativa e l’effervescenza politica furono tali da suscitare in Europa, nel Seicento, la nascita di un sistema alternativo: le grandi accademie, come l’Accademia dei Lincei o la Royal Academy. La faziosità decretò la decadenza dell’università e la ricerca di sostituti. Per secoli le accademie guidarono la politica culturale dei governi, la protezione pubblica delle arti, l’educazione delle menti, il confronto delle idee.
Per parlare di università in un senso moderno del termine, si deve partire dalla sua rinascita, con la fondazione dell’Università di Berlino nel 1810, secondo gli ideali di Alexander e Wilhelm von Humboldt, che, chiamato alla fine del 1808 dal Ministero dell’interno, si avvalse della collaborazione di gente come Friedrich Schleiermacher, Friedrich Carl von Savigny, Johann Christian Reil. Nacque un modello organizzativo del tutto nuovo: non un luogo di preparazione professionale, ma di esaltazione vocazionale della ricerca, della scoperta, della verità, nella cooperazione fraterna di insegnanti e studenti, perché insegnamento e ricerca erano viste come due facce della stessa predisposizione interiore. Un punto principale era che la ricerca doveva trarre scopi e metodi da sé stessa e non da autorità politiche o clericali. Quella riforma diventò la base del clamoroso successo della Germania come grande potenza. Fino al 1933, tra tutti i premi Nobel, quelli conferiti a tedeschi furono superiori a quelli conferiti a britannici ed americani messi insieme. Poi tutto è cambiato. Paradossalmente, un’idea di autonomia scientifica dell’università, finanziata dallo Stato ma indipendente dall’influenza statale, è stata gradualmente reinterpretata secondo il vecchio spartito di corporativismo e di ribellismo.
Da Friedrich Nietzsche a Raymond Aron c’è, su varie sponde, un’amara letteratura sui difetti delle istituzioni universitarie occidentali. Contro la patetica figura dell’intellettuale “cronicamente scontento”, “mescolanza di risentimento e di presunzione”, Karl Popper ha scritto alcune delle sue pagine più veementi: “in ogni occasione sono sempre stati e siamo noi gli intellettuali, per vigliaccheria, presunzione ed orgoglio, a fare le cose peggiori”. Dai tempi di Raymond Aron e Popper, tra woke culture e cancel culture, la situazione è assai peggiorata.
In una sterminata bibliografia sulle controversie accademiche, spicca una storiella. Visto che Dio aveva creato il professore universitario, essere sublime per generosità, cultura, intelligenza, il diavolo volle creare anche lui un essere sublime, ma per malvagità, ignoranza, stupidità: creò il collega del professore universitario. L’apologo ha un evidente sottinteso: il professore universitario, in genere, ha una buonissima opinione di sé stesso, non dei suoi colleghi di lavoro, a cominciare dal collega, che a sua volta pensa la stessa cosa, ma a parti rovesciate. Non si tratta soltanto di storielle. Dicono le malelingue che quasi ogni intellettuale propriamente detto consideri come incapaci o gaglioffi tutti gli altri intellettuali, tranne sé stesso e i suoi sodali. Figuriamoci che cosa possono pensare di Trump e di Vance.