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Il presidente Donald Trump ha fatto della “reindustrializzazione” degli Stati Uniti uno dei punti fermi della sua politica, tanto da aumentare i dazi, o applicarne di nuovi, per le merci importate, non solo al fine di riequilibrare la bilancia commerciale statunitense, ma anche per “rimpatriare” le industrie statunitensi, trasferitesi all’estero per approfittare di costi di produzione più contenuti. Ma quali sono le probabilità di portare a termine la "reindustrializzazione" degli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti si sono posti l’obiettivo di incentivare il più possibile l’aumento della capacità industriale del Paese, ma non sembra in grado di colmare il divario industriale con la Cina.
In un mondo globalizzato, il detto “mogli e buoi dei paesi tuoi” sembrerebbe anacronistico, vista la necessità di dover intrattenere relazioni e condurre affari con controparti anche molto lontane, territorialmente e culturalmente. Sarà proprio per questo motivo, che nel commercio internazionale la designazione “made in…” ricopre un’importanza notevole. Il “made in USA”, per esempio, è regolato da norme così restrittive, che il suo utilizzo è limitato solo a quelle merci, che, secondo la Federal Trade Commission (FTC), “sono del tutto o virtualmente del tutto” prodotte negli Stati Uniti, ovvero il cui processo manifatturiero e il lavoro impiegato nel processo produttivo sono localizzati sul territorio statunitense. Nell’aprile del 2024 ha fatto scalpore il caso della catena di distribuzione di articoli per la casa “Williams-Sonoma”, che è stata multata dalla FTC per 3,18 milioni di dollari, un record, per aver venduto oggetti “made in USA”, sebbene fossero stati prodotti altrove.
Non occorre molta fantasia per immaginare che i prodotti venduti come statunitensi fossero “made in China”, dal momento che, a fine 2023, la Cina era il primo Paese industriale, 31,6% della produzione mondiale, pari a quasi 5 trilioni di dollari di beni commercializzati. L’espansione industriale cinese è stata sostenuta dai programmi e dagli incentivi statali, come il “Made in China 2025”, lanciato nel 2015, con lo scopo, non solo di modernizzare le industrie della robotica, dell’aviazione e del trasporto, ma anche di sostenere l’avanzamento tecnologico del Paese e garantirne la competitività sui mercati mondiali. Gli investimenti previsti dal “Made in China 2025”, il primo dei tre progetti decennali indirizzati a consolidare la posizione della Cina come leader industriale mondiale entro il 2049, prevede lo stanziamento di circa 50 miliardi di dollari, di cui 1,5 miliardi finanziati dal governo centrale, altri 1,5 miliardi dai governi locali e ulteriori 45 miliardi dalla Banca Cinese per lo sviluppo. Sebbene le cifre effettivamente investite non siano state rese pubbliche, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, dal momento che il Paese asiatico, oggi, è il primo produttore di batterie per i veicoli elettrici ed è all’avanguardia nella robotica e nell’elettronica.
Il secondo Paese industriale al mondo, gli Stati Uniti, nonostante le varie amministrazioni succedutesi si siano poste l’obiettivo di incentivare il più possibile l’aumento della capacità industriale del Paese, non sembra in grado di colmare il divario industriale con la Cina. In seguito alla crisi finanziaria del 2008, era stato promosso il “National Network for Manufacturing Innovation” (NNMI). Questo programma di investimenti, approvato dal Congresso nel dicembre del 2014 e ridenominato nel 2016 come “Manufacturing USA”, è stato lanciato per rivitalizzare il settore industriale statunitense e prevedeva la costruzione di centri di ricerca, 14 completati al giorno d’oggi, per lo sviluppo di nuove tecnologie nei campi dell’elettronica, materiali compositi, robotica, biomedicina ed energia pulita. Lo sviluppo cinese, tuttavia, non solo è riuscito a tenere testa a quello statunitense, ma ha addirittura registrato una crescita esponenziale. Basti solo pensare che i brevetti depositati in Cina nel solo 2023 ammontavano a 1,68 milioni, mentre negli Stati Uniti a mala pena raggiungevano le 600 mila unità.
Per la “re-industrializzazione” devono essere garantite forniture a costi contenuti di materie prime e di energia, in modo da garantire la competitività delle merci prodotte.
Nonostante l’agguerrita concorrenza e competitività cinese, il presidente Trump, anche per il suo secondo mandato, ha fatto della “re-industrializzazione” del Paese uno dei punti fermi della sua politica, tanto da aumentare i dazi, o applicarne di nuovi, per le merci importate, non solo al fine di riequilibrare la bilancia commerciale statunitense, ma anche per “rimpatriare” (processo di reshoring) le industrie statunitensi, trasferitesi all’estero per approfittare di costi di produzione più contenuti, e per indurre le industrie straniere a investire negli Stati Uniti in modo da, facendo leva sugli investimenti delle aziende stesse, offrire nuovi posti di lavoro e ridare slancio allo sviluppo, soprattutto tecnologico, del Paese.
La lista degli investimenti pianificati è già molto lunga e sembra continuare ad allungarsi. Le aziende del settore tecnologico, considerata la spinta allo sviluppo dell’intelligenza artificiale (AI) e dei centri data, avrebbero già promesso circa 1,1 trilioni di dollari. Oltre al progetto congiunto di Oracle e Open AI, “Stargate”, da 500 miliardi di dollari, Apple ha programmato investimenti per 500 miliardi di dollari, Meta per 65 miliardi, Microsoft per 40 miliardi e Amazon per ulteriori 11 miliardi di dollari. In aggiunta, altri 200 miliardi di dollari saranno investiti da Softbank e TSMC per la produzione di chip avanzati “made in USA”, in grado di supportare lo sviluppo e il funzionamento dell’AI. Ad essere interessati, tuttavia, ci sono anche altri comparti industriali. Stellantis ha promesso 5 miliardi di dollari per riavviare il suo sito di assemblaggio di vetture nell’Illinois, GE Aerospace ha annunciato 1 miliardo di dollari per lo sviluppo dei propri processi industriali, Merck ha promesso di investire altri 8 miliardi di dollari per lo sviluppo del sito produttivo, del costo di 1 miliardo di dollari, nella Carolina del Nord, Hyundai è pronta a stanziare 20 miliardi di dollari per la localizzazione della sua produzione negli Stati Uniti. Alcuni Paesi, a livello governativo, hanno reso pubblico il loro interesse a tornare ad investire negli Stati Uniti. L’Arabia Saudita, per esempio, ha annunciato investimenti per 600 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni, mentre gli Emirati Arabi Uniti per 1,4 trilioni di dollari.
Se i capitali finanziari non sembrano scarseggiare, al fine di garantire il successo del progetto di “re-industrializzazione” devono essere garantite forniture a costi contenuti di materie prime e di energia, in modo da garantire la competitività delle merci prodotte, non solo sul mercato nazionale, ma anche su quelli internazionali. Gli Stati Uniti, se da una parte possono contare su riserve energetiche abbondanti, essendo tra i primi produttori mondiali di petrolio e gas naturale, dall’altra, saranno costretti ad incrementare l’import di materie prime, soprattutto minerali rari, per soddisfare i fabbisogni produttivi dell’industria tecnologica. Potrebbe essere, quindi, logico pensare, che i tentativi del presidente Trump di stringere accordi sull’estrazione e sul commercio dei minerali rari con Russia e Ucraina siano motivati dalla necessità di fornire alle aziende operanti negli Stati Uniti le quantità di materie prime necessarie, controllandone la filiera dall’estrazione fino all’importazione e alla vendita. Gli Stati Uniti nonostante abbiano una filiera di lavorazione dei minerali rari assai sviluppata, non dispongono di ingenti riserve. Secondo i dati del 2023, Cina, con 44 milioni di tonnellate, Vietnam, con 22 milioni di tonnellate, e Brasile, con 21 milioni di tonnellate, sono i tre Paesi con le maggiori riserve di terre rare, mentre quelle degli Stati Uniti si attestano intorno a 1,8 milioni di tonnellate, tanto da rendere gli USA dipendenti fino al 100% dall’import da altri Paesi di ben 12 minerali, tra cui il niobio e lo scandio, e per più del 50% di altri 29 materiali rari.
Oltre alle risorse finanziarie e materiali, un altro fattore essenziale per la reindustrializzazione degli Stati Uniti è la disponibilità di personale, specializzato e non, da impiegare nei processi produttivi.
Oltre alle risorse finanziarie e materiali, un altro fattore essenziale per la reindustrializzazione degli Stati Uniti è la disponibilità di personale, specializzato e non, da impiegare nei processi produttivi, più o meno complessi, che, considerate le attuali caratteristiche del mercato del lavoro statunitense, potrebbe rappresentare uno scoglio assai ostico da affrontare. Sebbene, infatti, il mercato del lavoro sembri in equilibrio, con il tasso di disoccupazione che a febbraio del 2025 si è attestato al 4,1%, il più basso dal luglio del 2019, quando era al 3,6%, la Camera di Commercio degli Stati Uniti ha messo in evidenza le difficoltà delle aziende nell’assumere personale. Su un totale di 8 milioni di posti di lavoro disponibili, infatti, ci sarebbero solo 6,8 milioni di disoccupati.
La reindustrializzazione dovrebbe, poi, portare ad un mutamento, anche se non eccessivamente significativo, sull’intero sistema occupazionale, che nel corso degli ultimi 10 anni non ha visto movimenti significativi. Il 79% della forza lavoro, infatti, rimane impiegata nel settore dei servizi, mentre quello industriale e quello agricolo occupano, rispettivamente, il 19% e l’1,5% del totale. A sorprendere sono, tuttavia, i numeri degli occupati per attività, come educazione, primaria e secondaria, sanità e ristorazione fast-food, che contano il maggior numero di impiegati. L’Ufficio di statistica del lavoro statunitense (Bureau of Labor Statistics – BLS) nel suo studio sul tasso di crescita occupazionale per il decennio 2023-2033 ha indicato che il settore sanitario, +6,7 milioni, quello informatico, +304 mila posti di sviluppatore di software, nonostante nel recente passato i posti di lavoro si siano ridotti in maniera drastica, e quello della ristorazione, +245 mila posti da cuoco, siano i settori, che potrebbero registrare il maggior numero di occupati. Secondo le stime di Deloitte, entro la fine del 2033 il settore industriale, invece, potrebbe vedere acuirsi ulteriormente il deficit di forza lavoro, dal momento che 1,9 milioni di posti di lavoro potrebbero rimanere scoperti. Le stime di Boston Consulting Group del 2023 prevedono anche un deficit, in costante espansione fino al 2030, di ingegneri negli Stati Uniti: ogni anno, infatti, per un’offerta di circa 400 mila posti di lavoro un terzo di questi rimangono vacanti. Non devono quindi sorprendere i risultati dell’audit dell’ispettore generale della NASA sull’operato di Boing per lo sviluppo del sistema di lancio del razzo Exploration Upper Stage, che presenta “problemi nel processo di controllo qualità, attribuiti alla mancanza di un numero sufficiente di lavoratori aerospaziali formati ed esperti presso Boeing”.
Oltre ai fattori già menzionati, poi, la burocrazia e il clima politico del Paese avranno un impatto sull’andamento del processo, basti pensare che a fine del 2024 circa il 40% dei maggior progetti, promossi attraverso l’Inflation Reduction Act e il CHIPS and Science Act, con un piano di finanziamenti, rispettivamente, da 890 e da 280 miliardi di dollari, avevano subito forti ritardi a causa della mancanza delle autorizzazioni e dei permessi necessari in materia ambientale. Vista, quindi, la molteplicità di scogli da superare, quali sono le probabilità di portare a termine la reindustrializzazione degli Stati Uniti? Quale sarà il metro di misura per definire il successo di questo processo: l’aumento dell’indice industriale statunitense, l’aumento del PIL oppure un aumento dei posti di lavoro e un miglioramento del saldo della bilancia commerciale?