Un articolo di: Nello Del Gatto

Sono passati 500 giorni dal massacro del 7 ottobre e la morte dei due fratellini e della loro madre ha segnato il superamento di un limite che fino a ieri era contestato solo a Israele. Nel frattempo Netanyahu accentra su di sé il potere nelle trattative mentre Trump con le sue dichiarazioni ha obbligato i Paesi arabi a uscire allo scoperto. Riad e il Cairo sono disponibili a condurre le discussioni per il futuro di Gaza. Ma una vera via per la pace ancora non si vede

Netanyahu già aveva l’ultima parola sui colloqui, ora vuole dettare le regole del gioco e condurlo

Cinquecento giorni dopo il massacro del sette ottobre, la situazione resta molto complicata in Medio Oriente. La seconda fase dell’accordo su Gaza non è stata ancora discussa, i contatti si rincorrono tra Cairo, Doha, Gerusalemme e Washington. Il contraccolpo emotivo in Israele per la conferma della morte di Ariel Bibas, quattro anni, di suo fratello Kfir di due (che ha trascorso come ostaggio di Hamas a Gaza quasi tutta la sua vita) e della loro madre Shiri, ha influito non poco sull’opinione pubblica, scossa anche dal modo in cui sono stati uccisi, a sangue freddo per mano nuda degli aguzzini, e come le loro bare sono state trattate, con anche il macabro teatro della consegna di un altro corpo al posto di quello della donna.

Quando Hamas lunedì da Beirut ha annunciato la consegna dei corpi dei tre, insieme a quelli dell’altro ostaggio Oded Lifshitz in sacchi di plastica, Netanyahu stava tenendo una riunione fiume sulla sicurezza. In questa, ha deciso di cambiare il vertice del suo gruppo negoziale. Via il capo del Mossad David Barnea e quello dello Shin Bet Ronen Bar (quest’ultimo in procinto di essere licenziato per la falla di sicurezza imputabile ai suoi uomini che non hanno saputo fronteggiare il massacro del sette ottobre). Al loro posto, a guidare la delegazione, Ron Dermer, il ministro più vicino a Netanyahu, una delle persone più prossime al premier. Una indicazione chiara del percorso che si vuole prendere: non più la gestione dell’accordo in mano ai servizi, ma alla politica, con il diretto coinvolgimento del premier.

Netanyahu già aveva l’ultima parola sui colloqui, ora vuole dettare le regole del gioco e condurlo, tenere in mano il pallino. La morte confermata dei fratellini Bibas in qualche senso lo libera da un peso, gli lascia le mani ancora più libere e chiarisce, semmai ce ne fosse stato bisogno, chi ha di fronte. Non solo: dopo la liberazione degli ultimi sei ostaggi in vita della prima fase, Netanyahu ha deciso di bloccare l’uscita dal carcere degli oltre seicento prigionieri palestinesi promessi, fino a quando non ci saranno garanzie che Hamas rispetti gli ostaggi.

L’uccisione dei due fratellini e della madre fa superare al conflitto quel limite che, fino ad ora, era imputato solo a Israele

L’uccisione dei due fratellini e della madre, il macabro show della consegna dei loro corpi, divenuti loro malgrado simboli della guerra, fa superare al conflitto quel limite che, fino ad ora, era imputato solo a Israele: l’attacco ai bambini. Non tanto nei numeri, visto il grave bilancio che arriva da Gaza dove i civili sono stati usati come scudi (dopotutto fu lo stesso leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, che all’indomani dello scoppio della guerra disse che il suo gruppo aveva bisogno del sangue di donne, uomini e bambini), ma nella sostanza. Dopotutto, che i numeri non siano in pareggio, lo dimostra anche la quantità di prigionieri palestinesi, anche pluriergastolani, liberati in cambio del rilascio degli ostaggi israeliani.

Nel codice mediatico, la morte dei bambini ha sicuramente un valore maggiore. Le immagini arrivate da Gaza con i bambini uccisi o mutilati hanno contribuito al biasimo internazionale contro i bombardamenti israeliani. Lo scoprire che i due piccoli forse sono stati strangolati e l’assurda messa in scena per la consegna dei corpi, con la partecipazione di molti coetanei locali, ha provocato la condanna anche da chi, come le Nazioni Unite, è stato sempre critico nei confronti d’Israele.

Il cambiamento nella delegazione israeliana coincide anche con la variazione delle carte in tavola da parte di Hamas pronta, dice, nella seconda fase, a liberare tutti quelli in vita, non dilazionando la loro uscita nel tempo come nella prima fase. Per poi lasciare le vittime nella terza fase.

Hamas vuole anticipare i tempi. Durante le cerimonie di rilascio ha mostrato i muscoli, ha messo in campo una propaganda notevole per dimostrare di essere ancora al timone di Gaza. Ma è una vittoria di Pirro, perché anche i Paesi arabi insistono in una Striscia non governata da Hamas. L’Autorità Nazionale Palestinese è invocata da parti come quella che dovrà gestire Gaza dopo la guerra. Ma quale ANP? Quella di Mahmoud Abbas, conosciuto come Abu Mazen, è invisa agli stessi palestinesi e a molti governi, israeliano in testa. Nonostante stia cercando di accreditarsi come unico interlocutore (l’operazione che ha condotto a Gerico per oltre un mese contro Hamas, Jihad Islamico e simili, la decisione di rimuovere il pagamento ai familiari dei condannati per terrorismo da Israele, vanno in questo senso). Una diversa Autorità Palestinese potrebbe sicuramente riscuotere più favori, ma formata da chi? Se si va alle urne, il rischio che Hamas diventi il primo partito non solo c’è, ma è più che reale, come già successo in passato.

Dopotutto tra i palestinesi non solo Hamas riscuote ancora successo, ma il massacro del sette ottobre e la gestione della guerra e degli ostaggi, con la liberazione di migliaia di prigionieri palestinesi, ha accreditato il consenso del gruppo che controlla Gaza.

Nelle contrattazioni con i mediatori, Hamas sta assumendo una posizione meno intransigente. Sia perché sa che il suo futuro è segnato, logorato anche dalle perdite della guerra (anche se diverse fonti di intelligence dicono che ha reclutato tanti miliziani quanti ne ha persi), sia perché mediaticamente sta giocando al “poliziotto buono” per prendere sempre più consenso, in qualche modo politicizzando sempre di più la discussione. Ha minacciato di ritardare l’uscita degli ostaggi per ottenere case mobili e mezzi per il movimento terra. Ha proposto di far uscire tutti gli ostaggi vivi insieme, capovolgendo la narrativa: noi siamo concilianti, gli altri non rispettano gli accordi.

Netanyahu dice di essere voluto passare da colloqui e condizioni “dare-dare” con i vertici dei servizi, a colloqui “dare-avere”. Da Riad e dal Cairo, dove in diversi momenti i Paesi del Golfo si sono riuniti e si riuniranno per discutere il dopo guerra e il destino di Hamas, si elabora un piano alternativo a quello di Trump. Il quale, con le sue dichiarazioni, ha voluto far uscire allo scoperto i Paesi arabi, spingendoli a prendersi davvero cura dei palestinesi.

Resta il fatto che il contraccolpo interno israeliano per la morte dei bambini è stato forte così come quello dell’intero massacro del sette ottobre con il suo bilancio pesante di vittime anche durante la guerra, senza contare i problemi politici interni e la questione economica. Certo, Netanyahu può contare sull’aiuto di Trump, ma la situazione è ancora lungi dall’essere risolta. Il futuro di Hamas, il futuro dei palestinesi, il futuro di Gaza restano incognite. Le dichiarazioni di Netanyahu e Trump fanno a cazzotti con la realtà. L’esempio libanese è la cartina di tornasole: la guerra è finita da tempo, ma Israele non si è ritirato del tutto, continua ad attaccare postazioni di Hezbollah che ha sempre il suo potere, gli israeliani del nord non sono ancora tornati nelle loro case. I risultati della guerra, al netto delle vittime, sono ancora lungi dall’essere svelati con chiarezza.

Giornalista, corrispondente estero

Nello Del Gatto