Quella tra Stati Uniti e Cina è molto più di una semplice battaglia sui dazi. Non sono escluse future trattative ma quello che è certo è che Pechino si prepara da tempo a questo momento e può contare sull'autosufficienza tecnologica oltre che sulle sponde multilaterali di BRICS e SCO
La partita tra Stati Uniti e Cina è molto più di una mera battaglia sui dazi
“Sa menzionare i Paesi che fanno parte dell’ASEAN?”. “So che abbiamo alleati in Corea del Sud e Giappone, poi nell’AUKUS con l’Australia”. È il 15 gennaio scorso. Pete Hegseth risponde così durante l’audizione di conferma della sua nomina come segretario della Difesa della nascente amministrazione Trump. In quella sede, l’attuale capo del Pentagono conferma di non sapere nemmeno uno dei 10 Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, regione su cui l’amministrazione Biden aveva investito moltissimo nell’ottica di diversificazione commerciale dalla Cina e suo contenimento strategico.
Tre mesi dopo, il 17 aprile, in Cambogia arriva il presidente cinese all’ultima tappa del suo tour nel Sud-Est asiatico, dove Trump ha messo piede solo per il summit (fallito) di Hanoi con il leader supremo nordcoreano Kim Jong-un. Cina e Cambogia sono talmente amici, che qualche mese fa una strada di Phnom Penh è stata ribattezzata Xi Jinping Boulevard. Nel giro di poche ore, Xi ha incontrato il re Norodom Sihamoni, il primo ministro Hun Manet e suo padre Hun Sen, oggi presidente del Senato dopo quasi 40 anni di leadership. I media cinesi sottolineano che la visita avviene durante le festività del capodanno cambogiano. Ma in realtà il 17 aprile è anche il 50esimo anniversario dell’ascesa al potere dei Khmer rossi, di cui la Cina maoista era il principale sponsor internazionale. All’esterno si cerca di cogliere tra le righe il messaggio di quella che non sembra una coincidenza. Forse un segnale di potere, più probabilmente la richiesta di non cedere alle pressioni della Casa Bianca. Nonostante il passato, Cina e Cambogia sono il perfetto esempio di Paesi “fratelli di sangue”, sembra dire Xi, proponendo la sua retorica di “futuro condiviso” e dei “valori asiatici” che vede ovviamente Pechino al centro della resistenza a quello che definisce “imperialismo commerciale”.
Il 15 gennaio e il 17 aprile sono due istantanee della complessa e sfaccettata partita che si sta giocando tra Stati Uniti e Cina, in quella che è molto più di una mera battaglia sui dazi. Nel “Liberation Day” di Trump, i Paesi del Sud-Est asiatico sono stati tra i principali bersagli delle tasse aggiuntive, poi congelate per una tregua di 90 giorni. “Per ogni dollaro che vendiamo alla Cambogia, loro ci vendono 39 dollari e il motivo per cui la Cambogia ci vende qualcosa è che la Cina ha trasformato la Cambogia nel più importante hub di trasbordo che la Cina comunista usa per eludere le nostre tariffe”, ha dichiarato la Casa Bianca prima di annunciare la tabella dei dazi. I Paesi del Sud-Est asiatico erano usciti vincitori dalla prima guerra commerciale, attraendo investimenti e linee produttive in uscita dalla Cina. In primis Vietnam, Indonesia e Thailandia, che hanno accolto in questi anni un numero crescente di grandi aziende internazionali, compresi i colossi tecnologici statunitensi. A marzo, Hanoi aveva tagliato le tasse sui prodotti statunitensi e aveva dato il via libera all’ingresso di Starlink nel Paese, cambiando le regole sui prodotti digitali e satellitari stranieri. Lo scopo era ammansire Donald Trump ed Elon Musk. Ma non è bastato. Il Vietnam è forse tra i Paesi che più hanno da perdere dalla seconda guerra commerciale, visto che ha il terzo maggiore surplus con gli Usa, dietro solamente a Cina e Messico. Ma, soprattutto, Hanoi si era guadagnata in questi anni lo status di hub globale, che ora potrebbe vacillare.
Xi ha sin qui rallentato sulle comunicazioni con la Casa Bianca. Trump aveva parlato di colloquio telefonico “imminente” e un successivo summit ma non c’è alcuna data
È proprio qui che si gioca la partita chiave. La Cina è uscita dalla prima guerra commerciale con relativa fiducia. Questo grazie a un elemento fondamentale, utilizzato per attutire l’impatto delle tasse aggiuntive: la delocalizzazione della produzione al di fuori dei confini nazionali. A partire dal Vietnam e altri asiatici. Colpendo i Paesi del Sud-Est, Washington impedirebbe o renderebbe più complicata questa strategia. Ecco perché, dopo il botta e risposta con la Casa Bianca fra dazi e ritorsioni, Xi ha deciso di muovere le sue pedine proprio in quella regione. Quello tra Vietnam, Malaysia e Cambogia è stato il primo viaggio all’estero del presidente cinese. E nella narrativa di Pechino questo gli aggiunge importanza. Negli stessi giorni del primo mandato di Trump, ad aprile 2017, Xi Jinping accettò l’invito di Trump negli Usa e si recò nella sua tenuta di Mar-a-Lago. Segnale inequivocabile del tentativo di dialogo per scongiurare l’escalation dello scontro commerciale che già si stagliava all’orizzonte.
Stavolta no. Xi ha sin qui rallentato sulle comunicazioni con la Casa Bianca. Già a febbraio, dopo il primo round di dazi del 10% su tutti i prodotti cinesi, Trump aveva parlato di colloquio telefonico “imminente” con Xi e un successivo summit in primavera, forse a Pechino o forse a Washington. Sono passati quasi tre mesi e non c’è alcuna data per un possibile summit, né i due leader si sono parlati direttamente. Molto più preparata rispetto alla prima guerra commerciale, la Cina ha deciso di mostrare risolutezza e forza. D’altronde, la consapevolezza chiara è quella di essere il principale, se non l’unico, bersaglio della furia dei dazi trumpiani. Lo stesso Presidente americano è uscito sostanzialmente allo scoperto, chiedendo a Paesi terzi e aziende di scegliere tra Usa e Cina. Ecco dunque che, invece di accogliere gli inviti di Trump, Xi ha tenuto un’inusuale conferenza sulla “diplomazia di vicinato” ed è poi partito per il Sud-Est asiatico, che ha un ruolo fondamentale e forse decisivo per la Cina. Intanto nel suo insieme è il suo primo partner commerciale, con un interscambio che nel 2024 ha sfiorato i mille miliardi di dollari statunitensi. E poi, come detto, è qui che si realizzano le triangolazioni delle merci cinesi vendute ai Paesi della regione e poi rivendute negli Stati Uniti per aggirare i dazi. Xi mira ad assicurarsi che questo canale di transito non venga ostruito. E nel suo tour si è presentato come garante del libero commercio e fattore di stabilità di fronte alle incertezze causate da Trump.
“Non ci sono vincitori nelle guerre commerciali, dobbiamo difenderci insieme contro il protezionismo”, ha ripetuto in tutti gli incontri tenuti tra Hanoi, Kuala Lumpur e Phnom Penh. Nei giorni precedenti alla visita di Xi, Reuters ha ipotizzato che Hanoi possa però limitare queste triangolazioni e acquistare per la prima volta ampi pacchetti di armi dagli Stati Uniti, operare una stretta per compiacere Trump, cancellare definitivamente i pesantissimi dazi del 46% annunciati il 2 aprile e poi congelati. Durante la sua visita, però, Xi ha sottoscritto 45 accordi di cooperazione su economia digitale, ferrovie, industria tecnologica verde e sicurezza. To Lam, segretario generale del Partito comunista vietnamita, ha dato garanzie sulla tenuta delle catene di approvvigionamento bilaterali e regionali.
Decine di accordi anche in Malaysia, che si è inserita con efficacia nei complessi ingranaggi della catena di approvvigionamento dei microchip. Significativo il rifiuto congiunto col premier malese Anwar Ibrahim del “protezionismo commerciale”, così come la promessa di cooperazione a tutela del libero commercio, che acquisisce ulteriore rilevanza visto che Kuala Lumpur detiene la presidenza di turno dell’ASEAN per il 2025. Dando dunque alle intese bilaterali un afflato multilaterale. In Cambogia, Xi ha garantito nuovi investimenti. D’altronde, è proprio qui che sono più visibili i progetti infrastrutturali della Via della Seta. Non solo strade e autostrade, ma anche opere strategiche come la base navale militare di Ream, di cui sono appena state inaugurate le nuove strutture finanziate dalla Cina. Washington teme che la base diventi un porto d’accesso al conteso mar cinese meridionale per le navi da guerra cinesi, anche se negli scorsi giorni l’hub ha ospitato anche navi militari del Giappone. Xi ha confermato i finanziamenti cinesi per il canale Funan Techo, che deviando l’acqua dal fiume Mekong dovrebbe consentire alla Cambogia di costruire nuove rotte commerciali.
Pechino potrebbe provare a migliorare i rapporti anche con l’Europa
Rafforzare le amicizie nel vicinato asiatico è fondamentale per la “prova di resistenza” della Cina nella guerra commerciale. Contestualmente, Pechino potrebbe provare a migliorare i rapporti anche con l’Europa. Un segnale in tal senso è arrivato dalla visita a Pechino del premier spagnolo Pedro Sanchez, che lo scorso 11 aprile è stato ricevuto da Xi. Nell’incontro, Sanchez ha chiesto maggiore cooperazione nelle aree di interesse comune e ha definito la Cina un partner dell’Unione Europea. Significativa l’assenza della definizione di “rivale sistemico” usata invece da Bruxelles negli ultimi anni. Xi ha risposto elogiando il ruolo di tramite della Spagna nei rapporti tra Europa e Cina. Ha poi chiesto di resistere insieme contro quelle che ha definito “prepotenze unilaterali”. Si tratta di un appello pronunciato di fronte a Sanchez ma indirizzato a tutti i leader europei, con Xi che prova a sfruttare il malcontento diffuso verso Trump per incunearsi tra Europa e Stati Uniti. La sensazione è che la Cina voglia usare il viaggio di Sanchez come una sorta di protocollo per il miglioramento dei rapporti con l’Europa. Pechino ha garantito che renderà più facile l’ingresso delle aziende spagnole sul mercato cinese, in particolare quelle agricole, sanitarie, energetiche e cosmetiche. Dall’altra parte dovrebbero arrivare nuovi investimenti cinesi in Spagna, in settori strategici dell’industria tecnologica verde come auto elettriche e batterie al litio. Lo stesso era accaduto dopo la visita dell’anno scorso, quando Sanchez aveva annunciato un cambio nella posizione spagnola sui dazi contro i veicoli elettrici cinesi. La speranza di Pechino è che anche stavolta la Spagna possa farsi portavoce di istanze a lei favorevoli a Bruxelles. In realtà permangono dei dubbi. Molti analisti sostengono che l’Europa, suo malgrado, potrebbe essere costretta a imporre dei nuovi dazi sui prodotti cinesi nel prossimo futuro. Questo perché, a causa delle tasse doganali degli Stati Uniti, ci sarebbe il timore che Pechino possa sostanzialmente inondare il mercato europeo riorientando l’export della sua sovrapproduzione. Alcuni Paesi potrebbero cercare accordi favorevoli con Trump, dando in cambio garanzie anti Cina. Potrebbe essere il caso della stessa Italia. C’è però anche la sensazione di qualche tentativo in atto per provare a migliorare i rapporti, o semplicemente a mostrarsi disponibili a farlo come calcolo tattico e negoziale nei confronti di Washington. Un segnale chiaro arriva dal probabile vertice di fine luglio tra Xi, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa. Teoricamente, l’incontro avrebbe dovuto tenersi a Bruxelles col premier Li Qiang. Lo spostamento a Pechino, consentendo la partecipazione di Xi, darebbe un segnale chiaro della rilevanza politica che entrambe le sponde intendono dargli.
Ma attenzione anche ai colpi a effetto. Per l’Asia e il Sud globale, la Cina pare disposta a cancellare tutte le tasse aggiuntive sulle importazioni di prodotti spediti da Paesi “non avversari”. Per l’Europa, potrebbero arrivare altri cadeau. Potrebbe essere funzionale anche a questo la sospensione di tutti gli acquisti di aerei e dispositivi Boeing ordinata dal governo cinese alle sue compagnie aeree. Congelati anche gli affari già programmati e stop a 179 ordini, che avevano una consegna prevista tra il 2025 e il 2027. Due aerei già consegnati, ma non ancora in funzione, sono stati restituiti con la giustificazione dei prezzi troppo alti, non sembrano al sicuro nemmeno i jet già consegnati. Significativo che lo stop alla Boeing sia stato ordinato proprio nel giorno in cui il Vietnam firmava il primo accordo internazionale per l’acquisto di jet C919 della Comac, la compagnia con cui la Cina promette enfaticamente di competere coi colossi occidentali. Ma non è escluso che il blocco agli acquisti di jet Boeing possa essere usato come leva per migliorare i rapporti con l’Europa, in particolare con la Francia. In che modo? Promettendo un aumento degli acquisti da Airbus, magari durante la visita in Cina del presidente francese Emmanuel Macron, prevista tra fine maggio e inizio giugno.
Da anni Pechino si prepara ad affrontare turbolenze internazionali, con l’autosufficienza tecnologica e il rafforzamento di BRICS e SCO
Nel frattempo, Pechino si prepara a possibili lunghe turbolenze. D’altronde, in questi anni ha lavorato per essere pronta a questa evenienza. Perseguimento dell’autosufficienza tecnologica, campagna di rettificazione dei colossi privati riorientando attività e investimenti in settori strategici, rafforzamento delle piattaforme multilaterali come i BRICS e la SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai). Tutto risponde alla necessità di schermarsi di fronte a crisi internazionali. Certo, l’economia cinese resta ancora molto dipendente dalle esportazioni e il governo fatica a lanciare del tutto i consumi interni per emanciparsi dalle tradizionali fonti di crescita. Eppure, la Cina è convinta che il tempo sia dalla sua parte. Non solo per la natura ciclica della politica statunitense (e in generale democratica), ma anche perché ritiene che il prezzo maggiore dei dazi lo pagheranno proprio i consumatori americani. La retorica ufficiale del governo e dei media statali definisce lo scontro con Trump persino come una “opportunità per accelerare la trasformazione del modello di sviluppo”, rafforzando peraltro i consumi nazionali. Non solo su auto elettriche e smartphone, dove BYD e la rinata Huawei sono ormai avanti a Tesla e Apple, ma anche in altri settori. Per esempio il cinema, vista la riduzione della quota di importazione dei film di Hollywood, le cui major hanno per lungo tempo contato molto sul mercato cinematografico cinese per rimpinguare i ricavi.
Ancora più significativa la stretta sull’export di una serie di risorse minerarie e su prodotti collegati alle terre rare, su cui la Cina ha un quasi monopolio. Il 4 aprile, in risposta ai dazi del Liberation Day di Donald Trump, il governo cinese ha ordinato restrizioni all’export di sei metalli delle terre rare pesanti. Fin qui, non è stata chiarita l’entità della stretta. Ma secondo il New York Times, da allora le spedizioni sono in buona parte sospese. Metalli e magneti restano fermi nei porti cinesi, in attesa di regole precise. Terre rare e metalli interessati sono fondamentali per la produzione di batterie agli ioni di litio, veicoli elettrici, turbine eoliche, microchip per smartphone e intelligenza artificiale. Ma l’impatto può essere forte anche sull’industria della difesa. In particolare su droni e missili. Ma i media cinesi sostengono che sarebbe a rischio il progetto F47, il jet di sesta generazione lanciato recentemente da Trump. I magneti delle terre rare rappresentano solo una piccola parte minuscola delle esportazioni della Cina verso gli Stati Uniti. Quindi, il blocco delle spedizioni causerebbe un impatto economico minimo per Pechino, ma notevole per gli altri.
L’entità della stretta resta comunque ancora ambigua. Segnale che Pechino che vuole tenersi una certa flessibilità per poter modulare il blocco a seconda dell’andamento della battaglia commerciale. Non è certo escluso un negoziato. Anzi, Pechino ha appena sostituito il suo rappresentante per il commercio internazionale, promuovendo Li Chenggang, ex inviato presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio. La sensazione è che si tratti di un messaggio rivolto in primo luogo agli Stati Uniti. Da una parte, mentre Trump continua a spingere per un colloquio diretto con Xi, la Cina sembra dire che si dovranno usare canali tradizionali per eventuali colloqui. Dall’altra, il cambio potrebbe comunicare anche la volontà di superare l’impasse e avviare negoziati. Al resto del mondo si comunica invece che la Cina vuole rafforzare il ruolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, elemento ribadito in tutti gli incontri diplomatici di queste settimane.
Resta palese che la Cina sia ormai convinta che l’obiettivo di Trump sia il deragliamento della sua economia, o un accordo capestro simile a una resa. Ecco perché Pechino ha chiarito che intende “combattere fino alla fine”, respingendo sdegnosamente qualsiasi ipotesi di un’intesa come quella sottoscritta negli anni Ottanta dal Giappone, al culmine della rivalità commerciale e tecnologica tra Washington e Tokyo. “Non cederemo come loro”, si legge spesso sul web cinese, dove nessuno nemmeno si immagina la possibilità di aggregarsi al gruppo di Paesi che, parole di Trump, corrono a “baciargli il culo” per un accordo. Se negoziato o (complicata) intesa sarà, la Cina non vuole mostrare di averne più bisogno degli Stati Uniti.