Dove sta andando l’Europa? Qual è il suo obiettivo? Quali sono i valori che difende? Come concepisce il proprio ruolo in un mondo complesso e multipolare? I popoli del Vecchio Continente stanno disperatamente cercando le risposte a queste e a molte altre domande. E ciò che preoccupa maggiormente, però, è che queste risposte non nasceranno né dal dibattito all’interno delle istituzioni né dalle campagne elettorali, dove sono favoriti i candidati politicamente corretti. È per questo che si cerca una risposta al di fuori delle istituzioni e al di là delle campagne elettorali. La risposta si cerca nelle proteste e nelle piazze.
Perché proprio oggi stiamo assistendo a proteste popolari tanto durature e di così ampia portata?
Le proteste scoppiate in Serbia sono le più importanti nella storia recente del popolo serbo, sia in termini di durata che di adesione. I serbi, del resto, sono notoriamente inclini alla protesta e alla mobilitazione di piazza. Nella storia della Serbia le manifestazioni ci sono sempre state, persino in epoca comunista. Ma perché proprio oggi stiamo assistendo a proteste tanto durature e di così ampia portata? Il popolo serbo non è il solo a essere sceso in piazza: anche in Ungheria decine di migliaia di persone si stanno radunando nei fine settimana per le strade di Budapest. Si parla persino della possibilità di attuare blocchi periodici della circolazione (in particolare sui ponti del Danubio). Anche in Turchia la popolazione è uscita a protestare, e le strade di Istanbul sono gremite di persone che manifestano il proprio dissenso contro la decisione di Recep Tayyip Erdogan.
Nelle ultime settimane, l’ondata di proteste è proseguita anche grazie a rumeni, bulgari e macedoni. A Bucarest, i sostenitori di Calin Georgescu sono stati i primi a far sentire la propria voce dopo la decisione del tribunale, a dir poco scandalosa, di vietargli la partecipazione alle elezioni. In risposta si è subito levata una contro-protesta da parte dei sostenitori della “strada europea” della Romania. Più di quaranta organizzazioni, riunite sotto la denominazione “EuRoManifesto”, hanno concordato un documento intitolato “Manifesto per l’Europa” e, per rendere pubblico il loro responso al candidato anti-globalista e ai suoi sostenitori, lo hanno presentato in piazza a Bucarest. A Sofia le proteste sono state più contenute sia per numero di partecipanti che per durata. A destare particolare interesse, tuttavia, è stato il gesto di bruciare bandiere dell’UE davanti alla sede della Commissione europea, in seguito imbrattata di vernice rossa. A Skopje la gente è scesa in piazza spinta soprattutto dalla disperazione, esasperata da una corruzione dilagante che permea l’apparato statale a tal punto da aver iniziato a mietere vittime. L’incendio scoppiato in una discoteca illegale nella piccola città di Kočani ha infatti provocato la morte di 59 giovani. Cos’altro è illegale? Come è possibile che queste pratiche illegali continuino a imperversare indisturbate? E perché non viene fatto assolutamente nulla per fermare gli individui che da decenni agiscono al di sopra di ogni legge? Ecco alcune delle domande che si sono sollevate durante la manifestazione a Skopje. Data la natura del problema, le proteste non possono essere indirizzate contro un singolo gruppo al potere o un individuo concreto. Certo, ci sono delle responsabilità individuali, ma le proteste danno voce a un malcontento generale che si è accumulato per almeno vent’anni. E la situazione è simile ad altri casi.
Le cause scatenanti delle proteste sono piuttosto varie: in Serbia è l’insoddisfazione nei confronti del lavoro delle istituzioni statali. In Ungheria, i manifestanti accusano il premier Viktor Orbán di essersi allontanato dai valori europei.
Le cause scatenanti delle proteste sono piuttosto varie. In Serbia è l’insoddisfazione nei confronti del lavoro delle istituzioni statali. Il crollo della tettoia alla stazione ferroviaria di Novi Sad, che ha causato la morte di sedici persone, è stato solo l’inizio, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In Ungheria, i manifestanti accusano il premier Viktor Orbán di essersi allontanato dai valori europei. In particolare, è scoppiata una nuova ondata di proteste in seguito all’approvazione di una legge che vieta il cosiddetto Pride. A Istanbul i disordini sono diretti contro Erdogan e sono stati innescati dall’arresto del carismatico sindaco Ekrem Imamoglu, il possibile candidato del Partito Repubblicano Popolare alle prossime presidenziali. Oggi Imamoglu si trova al centro di un’azione giudiziaria che appare chiaramente motivata da ragioni politiche (l’arresto formale è avvenuto con l’accusa di corruzione e presunto uso improprio del bilancio municipale).
Sebbene alcuni teorici e analisti siano inclini a vedere ovunque dei segnali di rivoluzioni colorate, ed è proprio in questa chiave che spesso vengono interpretate le proteste di Belgrado, Budapest e Istanbul, non è facile stabilire cosa accomuni realmente tutti questi eventi. Anzitutto perché, sul piano politico, Vučić, Orbán ed Erdogan sono figure profondamente diverse. In questo contesto, il caso di Orbán è forse il più evidente, e le proteste di Budapest condividono la motivazione con quelle di Tbilisi: i cosiddetti valori europei e la “prospettiva europea”. Si potrebbe dunque sostenere che l’Unione Europea (ovvero l’euroburocrazia di Bruxelles) stia tentando di distruggere Orbán. Tuttavia, il paradosso risiede nel fatto che l’Ungheria è membro dell’UE a pieno titolo! Orbán non ha alcuna intenzione di uscire dall’Unione, nonostante sia proprio l’UE a fomentare manifestazioni contro di lui, in quanto politico intenzionato a cambiare i valori europei e trasformare l’UE dall’interno. Di conseguenza, il conflitto tra l’euroburocrazia e Orbán a Budapest appare come uno scontro interno, piuttosto che una classica rivoluzione colorata. Inoltre, il confronto si svolge sul terreno di Orbán, il che lo pone in vantaggio a prescindere. Nel caso di Erdogan, la situazione è più complessa. Da un lato è evidente che i manifestanti stiano protestando contro il tentativo di eliminare un candidato presidenziale ritenuto inadatto; tuttavia, qui l’ipotesi di un tentativo di avviare una rivoluzione colorata appare più ambigua. Erdogan riveste infatti un ruolo cruciale sia nel contenimento dei flussi migratori verso l’Europa (il che lo rende importante per l’UE) sia nel mantenimento di una certa stabilità regionale in Medio Oriente (il che lo rende importante per Donald Trump). Chi può aver dunque organizzato questa rivoluzione colorata? Di certo non sono i cinesi e nemmeno i russi, dal momento che Erdogan intrattiene relazioni piuttosto stabili sia con Pechino che con Mosca. Inoltre, le tradizioni diplomatiche moderne della Cina e della Russia non sono solite affidarsi all’uso di questo genere di strumenti. Del resto, Erdogan ha perso le elezioni amministrative nelle principali città del Paese (il suo partito ha subito una netta sconfitta nelle tre maggiori metropoli turche, Istanbul, Ankara e Smirne), il che permette di affermare che in Turchia la democrazia esiste. Si potrebbe persino aggiungere che in Turchia ci sia oggi più democrazia che in alcuni Paesi europei, il che implica che le crisi possano essere risolte all’interno delle istituzioni, al di là delle proteste di piazza. Perché, allora, le proteste non accennano a diminuire?
Indubbiamente, dove ci sono proteste, ci sono anche i servizi di intelligence.
Cosa possiamo dire di Vučić e del caso serbo? Come Erdogan, Vučić conduce una politica estera multivettoriale e, negli ultimi cinque anni, ha intensificato i rapporti con Bruxelles e Washington in modo significativo. A differenza di Orbán, Vučić ha organizzato l’EuroPride a Belgrado, ha praticamente regalato il litio serbo ai tedeschi, sta acquistando nuove armi dai francesi e sta negoziando con gli americani una strategia per la sicurezza energetica. A differenza della Turchia, in Serbia la domanda non è soltanto chi possa aver cercato di organizzare una rivoluzione colorata, ma anche perché mai qualcuno nell’Occidente politico potrebbe aver voluto farlo? Vučić è il miglior interlocutore che gli attori occidentali abbiano avuto in Serbia negli ultimi anni, ed è difficile immaginare che in futuro ne possano trovare uno migliore.
Indubbiamente, dove ci sono proteste, ci sono anche i servizi di intelligence. Questo genere di situazioni gioca sempre a loro vantaggio: gli consente infatti di raccogliere informazioni, trovare persone potenzialmente utili alla diffusione della loro influenza e orientare i processi politici. Alle strutture d’intelligence la destabilizzazione piace sempre perché la loro influenza cresce proprio quando le circostanze diventano straordinarie e si aprono spazi per la manipolazione e l’azione creativa, funzionali alla tutela dei loro interessi. Tuttavia, ciò non implica necessariamente che dietro l’avvio delle proteste qui menzionate ci siano le strutture di intelligence di attori esterni, ovvero di singoli Stati occidentali.
Interpretare gli eventi dell’Europa sud-orientale attraverso il paradigma metodologico delle rivoluzioni colorate non può che condurci fuori strada. Certo, i politici ne parlano molto, probabilmente nella convinzione che ciò possa aiutarli a conservare le loro posizioni di potere. Tuttavia, è fondamentale distinguere tra la politica attuale e i quadri teorici necessari per analizzare i processi sociali. Per questo motivo è importante includere nell’analisi anche le proteste in Romania, Bulgaria e Macedonia del Nord. Va da sé che, a differenza dei politici ungheresi, turchi e serbi appartenenti agli apparati di governo, che parlano di ingerenze dei servizi occidentali e di rivoluzioni colorate, i politici romeni e bulgari di orientamento filo-occidentale tendano invece ad accusare spesso e volentieri i servizi segreti russi di interferenze a Bucarest e Sofia. Secondo loro, dietro tutte queste proteste ci sarebbero i russi, intenti a scatenare le proprie rivoluzioni colorate. Un’accusa che non solo risulta assurda per diversi motivi, ma anche fattualmente errata (la campagna su TikTok di Calin Georgescu, contrariamente a quanto sostenuto, non è stata finanziata dai servizi russi, ma dal Partito Nazionale Liberale rumeno con l’intento di danneggiare gli avversari politici di Georgescu). A questo punto sarebbe dunque opportuno tornare a quanto già detto in merito alle cause delle proteste in Macedonia del Nord. Nell’Europa sud-orientale, il motivo principale delle proteste in corso è, con ogni probabilità, la disperazione. Un sentimento che si manifesta in un diffuso malcontento: in Ungheria, Serbia e Turchia si rivolge contro i leader della “stabilocrazia”, ovvero leader che si trovano al potere da molti anni; mentre in Romania, Bulgaria e Macedonia del Nord la protesta prende di mira un apparato statale, politico e burocratico, che si è alienato da troppo tempo, diventando incapace di rappresentare gli interessi dei propri cittadini.
Questa disperazione profonda e a lungo repressa riaffiora in un contesto internazionale nuovo e radicalmente mutato, segnato da una rivoluzione tecnologica e da un’estrema imprevedibilità degli sviluppi globali.
Questa disperazione profonda e a lungo repressa riaffiora in un contesto internazionale nuovo e radicalmente mutato, segnato da una rivoluzione tecnologica e da un’estrema imprevedibilità degli sviluppi globali. Le società dell’Europa sud-orientale si trovano infatti a fronteggiare il fenomeno degli “stati catturati”. Dal punto di vista dell’origine della disperazione, poco importa se la “cattura” degli Stati provenga da leadership esterne o da entità sovranazionali. Quarant’anni fa, quando maturò la consapevolezza dell’esaurimento della matrice ideologica dominante, le società dell’Europa orientale furono pervase da una crescente insoddisfazione verso l’ordine comunista. Oggi nei Paesi dell’Europa sud-orientale accade esattamente la stessa cosa, ma questa volta il malcontento si rivolge contro l’ordine (neo)liberale. L’ideologia esistente è giunta al suo esaurimento; la democrazia, nella forma in cui è stata costruita, rappresenta una matrice ormai consumata.
A differenza di quarant’anni fa, tuttavia, non c’è aria di ottimismo. Ai tempi si credeva che con la caduta del comunismo sarebbe iniziata una nuova epoca di sviluppo: la democrazia appariva come la soluzione, e la matrice liberale offriva un quadro di riferimento ritenuto soddisfacente. Chi protestava sapeva cosa fosse un’alternativa ideologica esauriente. Oggi nessuno parla di alternative ideologiche complessive che siano in grado di sostituire l’assetto attuale, perché semplicemente queste alternative non esistono. Da qui deriva la disperazione, generata dall’incertezza.
Così non si può andare avanti a lungo: i manifestanti sanno bene contro cosa lottano, ma è impossibile capire cosa ci aspetti in futuro, quale visione comune li guidi, cosa sostengano davvero in alternativa. In generale, non è certo la prima volta che in Europa si assiste a una fase di destabilizzazione dovuta a cause di questo tipo. Ciò che colpisce, però, è che il processo sia partito proprio dall’Europa sud-orientale. Anche perché i sintomi che osserviamo nel Sud-Est si riscontrano anche altrove, in altri Paesi e società del continente europeo. Dove sta andando l’Europa? Qual è il suo obiettivo? Quali sono i valori che difende? Come concepisce il proprio ruolo in un mondo complesso e multipolare? A queste domande non ci sono risposte. Ciò che preoccupa maggiormente, però, è che queste risposte non nasceranno né dal dibattito all’interno delle istituzioni né dalle campagne elettorali, dove sono favoriti i candidati politicamente corretti. È per questo che si cerca una risposta al di fuori delle istituzioni e al di là delle campagne elettorali. La risposta si cerca nelle proteste e nelle piazze.