Guida ai problemi dell’economia internazionale

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Un articolo di: Riccardo Fallico

L'agenda globale degli ultimi anni, basata su un'implementazione spesso irragionevole dei concetti ecologisti sta per essere sostituita da un approccio più ragionevole ai problemi del clima e della sicurezza energetica.

Previsioni per il 2025? Il “verde” potrebbe non essere più di moda. A novembre del 2024 si è tenuto a Baku, in Azerbaijan, l’annuale Conference of the Parties  delle Nazioni Unite (COP29), centrata su temi quali ambiente, cambiamenti climatici e transizione energetica. A differenza degli altri anni, tuttavia, mentre i riflettori di tutto il mondo erano puntati altrove, ovvero sugli Stati Uniti, dove si erano da poco concluse le elezioni presidenziali, la COP del 2024 ha attirato l’attenzione più per le tensioni generatesi durante il suo svolgimento. Subito dopo l’inizio dei lavori, il presidente argentino, Javier Millei, ha ritirato l’intera delegazione del suo Paese, composta da 80 membri, accusando la mancanza di politiche energetiche pragmatiche che incoraggino lo sviluppo, invece di ostacolarlo. Successivamente, il ministro francese per il clima, a causa di divergenze di vedute politiche con il presidente del Paese ospitante, si è rifiutato di tornare a prendere parte ai lavori dell’assemblea.

Il padrone di casa, inoltre, si è anche distinto per le sue dichiarazioni di voler favorire e aumentare gli investimenti nel settore del gas naturale, colonna portante dell’economia azera, e con la sua affermazione, che gli idrocarburi sono “un regalo di Dio”, ha esplicitato il pensiero di molti Paesi in via di sviluppo, che stanno riconsiderando le loro posizioni sulla lotta ai cambiamenti climatici. Dalle parole ai fatti è passata l’Arabia Saudita, che, bloccando il piano di finanziamento da 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare gli Stati più poveri a rendere più verdi e sostenibili le proprie economie, ha manifestato la sua riluttanza nel proseguire il processo di transizione energetica concordato e sottoscritto l’anno precedente a Dubai.

Nonostante le scaramucce e gli ostruzionismi, tuttavia, nella dichiarazione finale della COP29 non solo è stata confermata l’intenzione dei Paesi più ricchi di finanziare i progetti di transizione energetica dei Paesi più poveri, ma la somma annua messa a disposizione è stata aumentata, fino al 2035, a 1,3 trilioni di dollari all’anno. Di questa somma 300 miliardi di dollari verranno erogati attraverso finanziamenti pubblici e accordi multilaterali a livello nazionale, mentre il restante dovrebbe essere messo a disposizione dal settore privato. Ciononostante, alla luce dei risultati elettorali negli Stati Uniti, i grandi progetti ambientali potrebbero rimanere solo sulla carta, dal momento che il nuovo inquilino della Casa Bianca ha già manifestato di avere idee diverse riguardo all’agenda verde.

Subito dopo il suo ritorno da padrone alla Casa Bianca, Donald Trump ha annunciato l’uscita degli USA dagli accordi di Parigi sul clima.

Alcuni degli ordini esecutivi, firmati dal presidente Trump immediatamente dopo la cerimonia del suo insediamento, lasciano poca immaginazione sulle future scelte di politica ambientale della sua amministrazione. Subito dopo essere stato dichiarato lo stato di emergenza energetica nazionale, è stata firmata l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi climatici di Parigi del 2015 e, poi, è stato firmato l’ordine esecutivo “Unleashing American Energy”, indirizzato ad incentivare non solo l’estrazione di idrocarburi negli Stati Uniti, ma, più in generale, di tutti i minerali che possono spingere e sostenere l’economia statunitense. Parallelamente sono state eliminati sia le restrizioni sulle vendite di auto con motore a scoppio sia gli incentivi per l’acquisto di veicoli elettrici.

Il mondo della finanza, sempre spinto ad anticipare i cambiamenti di mercato, si è già preparato a virare la rotta. Blackrock, che a fine del 2024 gestiva fondi per 11,6 trilioni di dollari, a inizio gennaio ha abbandonato il Net Zero Asset Managers initiative (NZAM), il gruppo di asset manager dedicato al raggiungimento delle strategia di emissioni nette zero entro il 2050. Questa improvvisa uscita della società statunitense ha messo in seria difficoltà l’iniziativa del NZAM, tanto da rivedere i propri obiettivi per tenere conto delle nuove aspettative dei propri clienti. Anche Wall Street sembra aver giocato d’anticipo: Goldman Sachs, Wells Fargo, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley and JPMorgan Chase hanno lasciato, sempre a inizio gennaio, il Net-Zero Banking Alliance, ovvero il gruppo di banche private mondiali, che, sotto l’egida delle Nazioni Uniti, si è impegnato ad allineare le proprie attività creditizie e di investimento per raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050. Non vi è da stupirsi di questo esodo, poiché anche la stessa Federal Reserve statunitense (FED), a pochi giorni dall’inaugurazione del presidente Trump, ha reso nota la sua uscita dal Network of Central Banks and Supervisors for Greening the Financial System (NGFS), ovvero il gruppo di banche centrali mondiali impegnate a “integrare la gestione dei rischi climatici e ambientali nel settore finanziario e a mobilitare la finanza per supportare la transizione verso un’economia più sostenibile”.

I principi di Environmental, Social, and Governance (ESG) sono stati mai davvero in grado di incentivare le società a concentrarsi sulle questioni ambientali o sociali.

La velocità nel cambio di rotta degli attori finanziari non può essere considerata, tuttavia, una sorpresa. Nonostante le spinte politiche e gli incentivi economici dei governi al sostegno delle politiche verdi e della transizione energetica, moltissime società, non solo finanziarie, hanno mostrato un impegno scarso o spesso solo di facciata nel sostenere la lotta ai cambiamenti climatici. Nemmeno i principi di Environmental, Social, and Governance (ESG) sono stati mai davvero in grado di incentivare le società a concentrarsi sulle questioni ambientali o sociali e nel recente passato l’ESG ha cominciato ad essere una tematica sempre meno rilevante per le aziende. Secondo i dati dell’Association of Investment Companies (AIC), associazione di categoria del Regno Unito per il settore delle società di investimento a capitale chiuso, tra il 2021 e il 2024 la percentuale di investitori che hanno considerato investimenti ESG è caduta dal 65% al 48%. Non è solo l’interesse che sta scemando, ma è anche l’impegno finanziario, che sta venendo meno. I flussi di investimento, dopo aver toccato il picco a fine 2020, a partire dal 2021 hanno subito una forte contrazione, tanto da registrare fuoriuscite costanti di capitali a fine 2023. Tuttavia, non sono solo gli investitori ad aver perso interesse, visto il forte abbassamento dei rendimenti degli investimenti ESG. Secondo, infatti, i risultati di una ricerca di PricewaterhouseCoopers (PwC), pubblicata a settembre del 2024, i CEO delle società statunitensi hanno confermato il loro distacco e distanziamento dalle pratiche ESG, tanto che solo il 47% le considerava come parte integrante delle operazioni della propria società.

Non deve stupire, quindi, che nel corso degli anni vi siano stati più e più tentativi di “piegare” le regole al fine di non danneggiare i risultati finanziari delle aziende stesse, tanto da coniare il termine di “greenwashing”, utilizzato per indicare quelle pratiche e/o comportamenti, attraverso i quali le società danno impressioni o, addirittura, informazioni fuorvianti su come i loro prodotti o processi produttivi siano ecologicamente sostenibili o abbiano un impatto ambientale minore di quanto non abbiano davvero. Nel 2019 McDonald’s, per esempio, aveva dichiarato di aver ridotto l’uso delle cannucce di plastica usa e getta delle proprie bibite, sostituendole con cannucce di carta riciclabile, nonostante queste non lo fossero davvero. Altro esempio di greenwashing è quello di Royal Dutch Shell, che in sede giudiziaria ha dovuto difendersi dalle accuse di non aver tenuto fede alle promesse fatte in materia di emissioni nette zero, avendo, per anni, destinato solo l’1% dei suoi investimenti a lungo termine in progetti per lo sviluppo delle energie a bassa intensità di carbonio. Anche la casa automobilistica Volkswagen è stata scoperta a truccare i risultati sulle emissioni dei suoi motori diesel nel 2015, dovendo poi far fronte a multe miliardarie per aver ingannato i consumatori.

Aswath Damodaran

Il professore di finanza della Stern School of Business di New York, Aswath Damodaran (nella foto), nell’ottobre del 2023 sulle colonne del Financial Times con il suo articolo “ESG is beyond redemption: may it RIP” evocava la necessità di abbandonare le pratiche di ESG, viste le loro insanabili problematiche strutturali. Mentre, infatti, da una parte si promettono trilioni di dollari per combattere i cambiamenti climatici, gli investimenti ESG non solo non riescono a quantificare i benefici per ambiente e società, ma anche quale sia il loro vero ritorno economico. La motivazione “aumenta il valore per gli azionisti e gli investitori” non è più sufficiente a giustificare questi investimenti.

Il settore finanziario ha approntato altri schemi di greenwashing. Hanno fatto molto discutere, per esempio, i cosiddetti fondi di investimento ESG, che, se per definizione avrebbero dovuto contenere azioni di aziende ecologicamente e socialmente responsabili, di fatto replicavano la struttura di altri fondi non ESG, nonostante le commissioni applicate fossero in generale più alte, proprio vista la loro componente ESG. Questa pratica era così diffusa, che le autorità competenti sono dovute intervenire e nel settembre del 2023 la Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti ha modificato la propria direttiva sui nomi degli investimenti obbligando i fondi a “investire almeno l’80% del valore dei loro asset nel tipo di investimento suggerito dal nome del prodotto finanziario stesso”. La motivazione di questa pratica è forse da ricercare nell’analisi della società di consulenza Boston Consulting Group (BSG) del 2021, che aveva registrato un calo della redditività del 4,6% dei fondi di investimento, legato alla maggior diffusione di strategie passive di investimento dei loro clienti.

Nonostante le modifiche al quadro normativo, queste pratiche di greenwashing sono ancora esercitate, tanto che a ottobre del 2024 ClientEarth, un’organizzazione legale e ambientale senza scopo di lucro, si è appellata alla Autorité des marchés financiers in Francia, perché indagasse le pratiche di Blackrock, accusata di gestire fondi “sostenibili”, nei quali, invece, vi sono posizioni per diversi miliardi di dollari in società petrolifere.

Sotto la lente di ingrandimento sono finite anche le banche. Lo studio della società non-profit Tax Justice Network ha evidenziato come gli istituti finanziari, pur di non perdere la possibilità di ottenere i cospicui ritorni sugli investimenti in fonti energetiche tradizionali, ma non “verdi”, schermandosi dietro il segreto finanziario, siano riusciti a non rendere pubblici i loro investimenti nel settore degli idrocarburi. I risultati dell’analisi, se corroborati, mostrano una situazione, che non rispecchia affatto né le dichiarazioni e nemmeno gli intenti di lotta ai cambiamenti climatici o contro le emissioni delle stesse banche. Le 60 maggiori banche mondiali coprono, infatti, circa il 68% dei finanziamenti nel settore degli idrocarburi, che vengono elargiti a sussidiarie registrate in Paesi con leggi sulla trasparenza alquanto offuscate e sono poi trasferiti nelle aree o nelle Nazioni, dove questi fondi sono richiesti. Sebbene gli ammontari totali dei finanziamenti si siano contratti rispetto al 2019, quando le somme elargite hanno toccato il trilione di dollari, nel 2023 sarebbero stati elargiti finanziamenti per 705 miliardi di dollari. I dati raccolti mostrano come le banche statunitensi siano state sempre molto attive, prima tra tutte JP Morgan, che avrebbe elargito 430 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2023.

Il tempismo degli attori finanziari nell’invertire la propria linea di condotta “verde” non può, quindi, apparire come una sorpresa e non deve nemmeno sorprendere. Non a caso, dopo che alla COP del 2023 il nucleare è stato definito “fonte di energia pulita”, le maggiori banche commerciali mondiali hanno dichiaro il loro impegno e interesse per finanziare i futuri progetti per la costruzione di nuove centrali, a dimostrazione che l’attitudine degli istituti finanziari verso l’ambiente è stata e, tutt’ora, è pragmatica, poiché il fattore decisionale più rilevante è l’aumento della redditività dell’impiego del denaro prestato.

In ultima analisi, quindi, nonostante si dichiari che l’ESG aumenti il valore per tutti i soggetti che hanno interessi in una determinata azienda (stakeholder), il profitto è l’unico metro di misura che indica quale e quanto sia il contributo economico di una data azienda alla società. Forse il “verde” non è mai stato davvero di moda.

Economista

Riccardo Fallico