Guida ai problemi dell’economia internazionale

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Un articolo di: Riccardo Fallico

La Commissione europea e alcuni leader del Vecchio continente insistono sull'aumento della spesa per la difesa. Ma i budget nazionali non sembrano in grado di assorbire questi nuovi esborsi. I costosissimi e azzardati progetti dell’Unione europea dovranno essere finanziati anche attraverso l’emissione, controllata dalla Commissione, di obbligazioni “sovranazionali europee”, ovvero gli EU Bonds

Henry John Temple

L’Europa si sente tradita e abbandonata, poiché, dopo l’inaugurazione del presidente Trump, non sembra più poter contare sulla “guida”, politica ed economica, del suo storico alleato. La nuova amministrazione statunitense, infatti, sembra intenzionata a mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale, ovvero difendere gli interessi nazionali, mettendo in pratica le parole dal politico inglese, Henry John Temple (l’incisione d’epoca a sinistra), che nel 1848, in un discorso alla Camera Bassa del Parlamento dichiarò “Non abbiamo alleati eterni e non abbiamo nemici perpetui. I nostri interessi sono eterni e perpetui ed è nostro dovere seguirli”. Così, mentre la parola “dazi” sta sostituendo quella di “sanzioni”, l’Europa tenta di rivendicare la sua indipendenza e autonomia, non tenendo, tuttavia, in considerazione le spinte verso il nuovo sistema di un mondo multipolare.

Il 2025 potrebbe rivelarsi un anno ancora più difficile rispetto al 2024 per l’Unione Europea (EU), che vedrebbe contrarsi ulteriormente la sua economia, sia a causa della continua diminuzione di competitività delle sue industrie, sia a causa dei sempre crescenti problemi delle finanze pubbliche dei suoi Stati membri. A inizio marzo l’annuncio del piano “Rearm Europe” della Commissione Europea (EC), per il quale circa 850 miliardi di dollari saranno destinati alla difesa, ha fatto sorgere molti interrogativi, poiché vi è il rischio che possa solo aggravare la precaria salute dell’economia dell’EU. Per la realizzazione di questo piano, circa 160 miliardi di dollari saranno elargiti sotto forma di prestiti, mentre i restanti 690 miliardi di dollari dovrebbero essere prelevati direttamente dai budget nazionali dei Paesi membri, che, attraverso un nuovo, ma non ancora elaborato, meccanismo legislativo, eviterebbero, per i prossimi quattro anni, di incorrere in penali fiscali per lo sforamento dei limiti imposti dagli stessi patti europei. Come messo in evidenza dallo stesso Financial Times, l’Europa, con questa manovra, ha di fatto dichiarato di voler passare da un sistema di “welfare” ad uno di “warfare”, poiché i fondi necessari al riarmo del Continente, se non raccolti attraverso l’emissione di nuovo debito, saranno ottenuti con il taglio delle spese per la previdenza sociale, permettendo così di aumentare la spesa totale per la difesa e portarla almeno all’1,5% del budget degli Stati, come dichiarato dalla CE.

Mentre si preannuncia una revisione di fondo dei target ambientali europei, rimane anche il punto interrogativo sulle prospettive di mantenere e operare un esercito “europeo”.

Rimangono, però, ancora molte questioni in sospeso, tanto sull’esecuzione quanto sulla stessa fattibilità finanziaria di questo piano di riarmo. Quali sono i principali benefici in termini economici? Quali saranno i criteri di acquisto del materiale bellico, dal momento che tutte le procedure saranno accentrate sulla Commissione Europea? Non è stato, inoltre, chiarito se gli armamenti debbano essere acquistati da produttori europei o da multinazionali straniere. Si assisterà, quindi, ad una conversione della produzione industriale europea, viste le limitate capacità produttive di materiale bellico? A metà marzo 2025, in seguito al crollo delle esportazioni di automobili tedesche, è stata paventata l’ipotesi che, visti i risultati finanziari negativi, le fabbriche della casa automobilistica Volkswagen, destinate alla chiusura, potrebbero passare sotto il controllo della multinazionale Rheinmetall, per la loro riconversione alla produzione bellica.

Nel caso di una riconversione dell’economia, sarà interessante conoscere la posizione della CE sul raggiungimento dei target ambientali, che l’Unione Europea stessa si è imposta. Non solo la produzione bellica è un processo energivoro, ma gli stessi veicoli prodotti richiedono enormi quantità di carburante per essere utilizzati. Un carro armato Leopard di seconda generazione consuma tra i 340 litri di carburante ogni 100 chilometri, se percorsi su strada asfaltata piana, ai 530 litri per 100 chilometri su terreno accidentato. Un aereo da combattimento tipo Eurofighter Typhoon, invece, consuma, in media, 4500 litri di carburante per una sola ora di volo.

Nonostante i target ambientali possano essere rivisti in base alle nuove esigenze in materia di difesa, rimane il punto interrogativo sulle prospettive di mantenere e operare un esercito “europeo”. Per la realizzazione del “Green deal” europeo la Commissione Europea si è impegnata a spendere circa 2 trilioni di dollari, destinati all’elettrificazione del continente e al raggiungimento del target di emissioni nette zero entro il 2050. Anche in questo caso gli ingentissimi investimenti avranno un peso non irrilevante per i budget dei Paesi membri: se un terzo, circa 848 miliardi di dollari, saranno elargiti attraverso il NextGenerationEU Recovery Plan, il restante sarà prelevato dal budget europeo per il periodo 2021-2027, che è stato fissato a 1,27 trilioni di dollari. Il Green Deal europeo, tuttavia, non risolve la questione relativa al fabbisogno energetico dei mezzi militari. Le spese energetiche per l’acquisto degli idrocarburi, petrolio e gas naturale, potrebbero, quindi, rappresentare un ulteriore peso finanziario, sia per la scarsità di risorse energetiche dell’Europa sia per i già alti costi di approvvigionamento, che da tre anni a questa parte hanno portato ad un’ulteriore perdita di competitività del settore industriale europeo. Secondo i dati dell’International Energy Agency (IEA) l’Europa è già da tempo un importatore netto di petrolio, avendo sofferto un calo del 55% della produzione di greggio tra il 2000 e il 2022. Nel 2022, sempre secondo l’IEA, le importazioni nette di oro nero hanno raggiunto il 76,6% delle forniture totali di petrolio. Le spese in prodotti energetici, poi, si sono attestate intorno ai 31 miliardi di dollari mensili nel terzo trimestre del 2024, in diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2023 quando ammontavano a circa 37 miliardi di dollari. Rispetto alla media mensile registrata nel 2021, di circa 29 miliardi di dollari, la differenza non sembra sostanziale, finché non si presta attenzione ai volumi acquistati, che sono passati dai 65 milioni di tonnellate mensili nel 2021 ai 60 milioni nel 2024. Gli alti costi di import, quindi, si riflettono sui prezzi al dettaglio: il prezzo del gas naturale in Europa è di quattro volte superiore a quello negli Stati Uniti, mentre quello dell’elettricità lo è di due volte.

Serviranno nuovi strumenti legislativi ad-hoc per permettere che i fondi necessari siano prelevati dai budget nazionali dei Paesi europei, senza sforare i limiti né di deficit né di debito totale

Sebbene secondo il piano “Affordable Energy Action Plan” la CE preveda di risparmiare 47 miliardi di dollari in spese energetiche per il 2025, con un incremento progressivo fino a 137 miliardi entro il 2030 e a 275 miliardi entro il 2050, l’ammontare dei finanziamenti da stanziare e le spese da sostenere sembrano non risultare sostenibili per i Paesi della EU, né nel breve né, tanto meno, nel lungo periodo. Non è da escludere, che serviranno nuovi strumenti legislativi ad-hoc per permettere che i fondi necessari siano prelevati dai budget nazionali, senza sforare i limiti né di deficit né di debito totale, ponendo la questione della rilevanza di questi limiti. Secondo i dati del 2023, metà dei membri dell’EU non è stata in grado di tenere il rapporto deficit/PIL sotto il 3%, come prescritto dal Patto di stabilità e di Crescita. Oltre a ciò, rispetto al 2022, il debito nazionale è aumentato e la metà dei membri EU ha un rapporto debito /PIL superiore al 60%, ovvero superiore ai limiti stabiliti. I mercati finanziari hanno iniziato a dare segnali di tensione e a inizio marzo le obbligazioni dei Paesi europei hanno subito un crollo dei prezzi e un repentino aumento dei tassi, trainati dai Bund tedeschi, che in un solo giorno hanno registrato il peggior crollo dal momento della riunificazione del 1990, proprio a causa della notizia che il prossimo cancelliere tedesco sarebbe intenzionato a togliere il freno alle politiche che regolano il debito nazionale, al fine di ottenere un trilione di dollari, circa, da destinare, per la maggior parte, all’industria militare tedesca.

I budget nazionali non sembrano in grado di assorbire questi nuovi esborsi e così gli ambiziosissimi progetti dell’Unione Europea dovranno essere finanziati anche attraverso l’emissione, controllata dalla Commissione Europea, di obbligazioni “sovranazionali europee”, ovvero gli EU Bonds, EU Bill e i NextGenerationEU Green Bonds, il cui montante, entro la fine del 2026, è destinato a raggiungere il trilione di dollari. Il pagamento tanto del sottostante quanto degli interessi di queste obbligazioni sovranazionali, però, dovrà essere garantito dai proventi dei budget nazionali dei Paesi membri, che, visti i problemi di deficit attuali, saranno costretti a fornire nuove e ulteriori garanzie per il pagamento delle emissioni obbligazionarie.

In questo contesto devono, quindi, destare un ulteriore segno di allarme i risultati del bilancio della Banca Centrale europea (ECB-BCE) per il 2024, che ha registrato una perdita netta, la seconda consecutiva dopo quella di 1,3 miliardi del 2023, di oltre 8 miliardi di dollari. La ECB assicura che tutte le perdite saranno ripianate “dai futuri utili netti”, tralasciando, tuttavia, di definire un orizzonte temporale e dichiarando già oggi che, sebbene in misura minore, “nei prossimi anni potrebbero registrarsi ulteriori perdite”. I risultati negativi sono da imputare, principalmente, alle misure di contenimento dell’inflazione, che hanno portato ad un’espansione delle passività, più care da mantenere rispetto al passato, visti gli alti tassi di interesse. È, tuttavia, interessante notare come le spese per il personale siano passate dai 716 milioni ai circa 900 milioni di dollari all’anno, principalmente a causa delle modifiche alle norme che disciplinano i piani pensionistici dei dipendenti della stessa ECB. Il problema delle perdite nette, però, non riguarda solo la Banca Centrale europea, ma anche le banche centrali dei Paesi membri. La Banca d’Italia nel 2024 ha registrato perdite per 7,5 miliardi di dollari, la Bundesbank per 20 miliardi di dollari. Questa situazione non è affatto nuova, dal momento che la Banca Centrale Francese nel 2023 aveva dichiarato perdite nette per 13 miliardi di dollari e quella della Gran Bretagna, addirittura, per circa 57 miliardi di dollari. Un’analisi dell’agenzia di rating Fitch del settembre 2024 stimava perdite complessive per la banche centrali della zona euro per 170 miliardi di dollari nel quadriennio 2024-2028, pari allo 0,2% del PIL annuale.

Una “guerra dei dazi” con gli Stati Uniti potrebbe costare ai Paesi europei fino a 29 miliardi di deuro.

A peggiorare le stime per il PIL, poi, vi sarebbe l’incombente guerra di dazi tra Stati Uniti e Unione Europea. Il presidente Trump ha già dichiarato di voler applicare il 25% di dazi sull’acciaio e sull’alluminio prodotti in Europa e, secondo le prime stime, l’export europeo potrebbe registrare perdite potenziali fino a 29 miliardi di dollari. L’Europa sarebbe pronta a rispondere con l’innalzamento dei dazi sull’import di prodotti statunitensi, ai quali, a loro volta, seguirebbero altre ritorsioni commerciali, come l’applicazione del 200% di dazio sull’import di prodotti alcolici di origine europea. Nonostante la guerra di dazi influenzi negativamente entrambe le economie di Stati Uniti e Unione Europea, è proprio l’EU che sembra essere più esposta, dal momento che gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale europeo per l’export e il secondo per l’import. Il saldo della bilancia commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti è favorevole ai Paesi europei, che nel 2023 hanno registrato un surplus sugli scambi di prodotti di 166 miliardi di dollari, ma un deficit di 115 miliardi di dollari nell’interscambio di servizi. A soffrire di più sarebbero le economie dei Paesi dell’Europa centrale, molto più dipendenti dall’export verso gli Stati Uniti. Il contraccolpo economico, poi, potrebbe essere anche più forte a causa delle politiche di isolamento dell’Europa nei confronti degli altri Paesi.

Come se non bastassero le scaramucce commerciali con gli Stati Uniti, l’EU ha voluto anche contrapporsi alla Cina e, a partire dal 2019, la sua strategia nelle relazioni con la potenza asiatica è stata incentrata non solo su partenariato e concorrenza, ma ha assunto i toni di rivalità. Nel 2021, per esempio, è stato lanciato il progetto di investimento europeo, il Global Gateway, da circa 318 miliardi di dollari da stanziare entro il 2027. Lo scopo di fondo del Global Gateway era quello di rappresentare un’alternativa al progetto One Belt One Road per riguadagnare l’influenza, persa a scapito proprio della Cina, in molti Paesi del mondo, soprattutto in quelli in via di sviluppo. La strategia di questo piano sembra, tuttavia, priva di coerenza, dal momento che a fine 2024 erano stati identificati circa 218 progetti di primaria importanza, a cui se ne sono aggiunti altri 46 per il 2025. Nell’ottobre del 2024, poi, nel tentativo di salvare l’industria dell’auto europea, l’EU ha alzato al 45,3% i dazi per l’importazione delle auto elettriche cinesi, incrinando a tal punto i rapporti con la Cina, la quale, non solo ha imposto dei dazi sull’import dei prodotti europei, ma a metà marzo ha anche mandato un forte segnale al mondo politico europeo, visto il rifiuto ufficiale del presidente cinese a prendere parte al summit Cina-Europa per la celebrazione dei 50 anni di rapporti diplomatici tra la Cina e l’EU.

I piani futuri della CE potrebbero avere un impatto ben maggiore di quanto si possa pensare sulla salute dell’economia europea, che non solo sarebbe destinata ulteriormente a peggiorare, ma potrebbe trovarsi isolata, nel caso l’Unione Europea non fosse in grado di rivedere le proprie strategie, adeguandosi ai cambiamenti geopolitici in atto. Se il riavvicinamento tra Russia e Stati Uniti, per esempio, non limitato alle questioni solo politiche, portasse anche al disgelo delle relazioni economiche tra le due superpotenze, la competitività dell’industria europea potrebbe soffrire a causa della cooperazione russo-statunitense nei settori energetico, minerario, commerciale e finanziario sui mercati internazionali, tanto da far anche perdere appetibilità come moneta di scambio all’euro, a scapito del dollaro o di altre valute, relegandolo a mera unità di misura del debito dei membri dell’Unione Europea.

Economista

Riccardo Fallico