Ma ora l'America First della strategia MAGA fa temere gli imprenditori dei microchip. La sovranità dell'isola è stata finora garantita anche dalla più grande industria di semiconduttori al mondo, ma quella della TSMC è un'esistenza condizionata dal volere americano. Con la fine del libero scambio, rischia infatti di finire anche quel particolare "status quo"
Se Taiwan si spegne, tutto si spegne. E l’investimento, 100 miliardi di dollari, della TSMC in Arizona, voluto da Trump, preoccupa i taiwanesi
Una catena montuosa sacra che protegge Taiwan. A Taipei e dintorni l’industria dei chip viene spesso chiamata così. Uno “scudo di silicio” che rende l’isola più difficilmente attaccabile, perché i suoi impianti di fabbricazione di chip devono restare operativi. Altrimenti le conseguenze sarebbero imponenti, per tutti. Frank Huang di Powerchip, altra importante azienda del settore, lo ripete spesso: se Taiwan si spegne, tutto si spegne. Frigoriferi, aria condizionata, auto, aerei, iPhone. La convinzione è che nessuno possa o voglia consentirlo. Non si può bloccare Nvidia, non si può bloccare Apple. Ecco perché, ragionano molti protagonisti dell’industria strategica, è improbabile che possa esserci davvero una guerra su Taiwan.
Ecco, Taiwan teme che quello scudo di silicio rischi di sgretolarsi. Un timore che si è improvvisamente rafforzato ed esteso nel mattino del 4 marzo, quando su media e social dell’isola erano onnipresenti le immagini dell’amministratore delegato della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (nota in tutto il mondo con l’acronimo TSMC), C.C. Wei al fianco di Donald Trump. I due annunciano insieme uno “storico investimento” di 100 miliardi di dollari da parte di TSMC nella sua sede in Arizona per la produzione di chip. Non solo si tratta del più grande investimento diretto estero nella storia degli Stati Uniti, ma anche uno dei più strategici. “Questi 100 miliardi di dollari di nuovi investimenti saranno destinati alla costruzione di cinque impianti di fabbricazione all’avanguardia in Arizona e creeranno migliaia di posti di lavoro”. E ancora: “I chip più avanzati per l’intelligenza artificiale si faranno qui in America”, ha detto trionfante Trump.
Un entusiasmo non esattamente condiviso da tutti i taiwanesi, che solo pochi giorni prima avevano assistito con sgomento all’incidente nello Studio Ovale tra lo stesso Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Dopo anni in cui Taiwan ha costruito la sua posizione nel mondo allineandosi agli Stati Uniti e collegando direttamente la sua situazione con quella dell’Ucraina, improvvisamente tante sicurezze sono venute meno. E a Taipei c’è chi inizia a temere di poter fare la stessa fine, abbandonati dal partner più importante e irrinunciabile per la propria difesa.
Dietro il piano di investimento di TSMC c’è ben più di un accordo commerciale. Per capirlo fino in fondo, bisogna comprendere il ruolo cruciale giocato dall’azienda anche a livello politico, diplomatico e strategico. Il suo “padre” è Morris Chang (nella foto qui sotto), personaggio praticamente leggendario nel settore. Nato nel 1931 a Ningbo, città dell’odierna provincia cinese dello Zhejiang, quando la Cina era Repubblica di Cina Nel 1949, poco prima della fine della guerra civile e della fondazione della Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong, va a studiare ad Harvard e al Massachusetts Institute of Technology per poi iniziare la sua carriera nel settore dei semiconduttori in Texas. Poi, alla metà degli anni Ottanta, il suo approdo a Taiwan. A Chang viene un’idea: creare un’azienda, TSMC appunto, che fabbrica e assembla per conto terzi. Per l’industria dei semiconduttori è una rivoluzione. Non può esserci un momento migliore. Le nuove start-up della Silicon Valley, tra cui Apple, Qualcomm e Nvidia, non hanno i fondi per costruire impianti di fabbricazione di chip propri. Iniziano così a collaborare con la TSMC, che non ha alcun interesse a rubare i loro progetti o a competere con loro. TSMC non è un concorrente perché non immette sul mercato prodotti finiti col suo marchio, ma aiuta le grandi aziende dell’elettronica e della tecnologia a realizzare i chip fondamentali per il funzionamento dei loro dispositivi.
La crescita è vertiginosa. Nel giro di pochi anni l’azienda diventa uno dei principali fabbricatori di chip. Oggi, Taiwan ha circa il 60% dello share globale nel comparto di fabbricazione e assemblaggio. TSMC da sola supera il 50%. Percentuale che si alza quando si parla dei chip più avanzati, cioè quelli inferiori a 7 nanometri. Il colosso di Hsinchu è l’unico a fabbricarli, insieme alla sudcoreana Samsung. La TSMC ha avviato la produzione di massa a 3 nanometri nel 2023 e lancerà quella a 2 nanometri nel 2025. Per il 2026 arriveranno invece i chip da 1.6 nanometri, sempre più efficienti della generazione precedente. Non è un mistero che l’industria dei semiconduttori taiwanese sia importante sia per gli Stati Uniti che per la Cina continentale, che flirtano con un disaccoppiamento tecnologico che forse sarà, ma ancora non è.
Il confronto geopolitico sta distorcendo l’intero mercato. La situazione ha distrutto tutta la produttività e l’efficienza portate dalla globalizzazione
Già nel 2020, al tramonto del primo mandato Trump, arriva il blocco delle licenze per l’export di chip targati TSMC alla cinese Huawei. Operazione resa possibile dal fatto che i chip fabbricati a Taiwan contengono comunque componenti made in Usa, che dominano il comparto del design, cioè quello alla base del settore. Contestualmente, l’azienda annuncia l’avvio della costruzione del suo primo impianto alla periferia di Phoenix. L’amministrazione Biden continua su quel solco. Nel 2022, Chang si presenta in Arizona al fianco dell’ex presidente democratico per annunciare l’ampliamento degli investimenti fino a tre impianti per un totale di 65 miliardi di dollari, in parte coperti dal Chips Act. Agli investimenti negli Stati Uniti, si sommano quelli in Giappone (con due fabbriche di cui una già operativa dalla primavera 2024) e in Germania, a Dresda. Già allora, a Taiwan serpeggia qualche malumore, per il timore di “svendere” una delle poche carte strategiche a disposizione dell’isola.
Gli stessi vertici di TSMC mostrano di non essere particolarmente felici dei tentativi insistenti di Washington di “cooptare” investimenti sul territorio statunitense, cercando peraltro di ricavarne anche trasferimento tecnologico. “La globalizzazione e il libero commercio sono quasi morti”, dice Chang. “Il confronto geopolitico sta distorcendo l’intero mercato. La situazione ha distrutto tutta la produttività e l’efficienza portate dalla globalizzazione. Queste barriere compromettono seriamente i benefici di un’economia libera. È una situazione davvero negativa”, denuncia invece l’amministratore delegato Wei, poco più di un anno prima della conferenza stampa dei giorni scorsi al fianco di Trump. Frank Huang, fondatore e presidente dell’altra grande azienda Powerchip, è ancora più esplicito in un’intervista (resa a chi scrive) a La Stampa: “Lo stesso processo se viene fatto a Taiwan o negli Stati Uniti ha costi molto diversi. Si fanno grandi profitti a Taiwan ma negli Stati Uniti il prezzo è raddoppiato, dunque alla fine non si fanno così tanti soldi”. Perché TSMC va in Arizona? “Non hanno avuto scelta. Gli Stati Uniti hanno continuato a spingere e spingere. E TSMC non può resistere alla pressione degli Stati Uniti. Ma nella nostra mente sappiamo che è importante continuare a fare affari con la Cina, così come è importante mantenere un buon rapporto con gli Stati Uniti. Ma come trovare un equilibrio all’interno della rivalità tra queste potenze? È un pensiero che ci sta dando il mal di testa”, ammette Huang.
Già, finché ha potuto Taiwan ha sempre evitato di farsi arruolare sulla cosiddetta “chip war”. E per vari motivi. Il primo, più banale, è economico: la quota di esportazioni in Cina continentale è ancora adesso assai rilevante, senza contare che i primi impianti di TSMC fuori dall’isola sono proprio a Nanchino. Ma il ruolo dei chip va oltre. In assenza di dialogo politico tra i due governi, i colossi tecnologici svolgono spesso quasi un ruolo da “ambasciatori”. Un esempio è quanto accaduto nella primavera del 2021, quando proprio TSMC e Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi in Cina continentale) favoriscono l’avvio della campagna vaccinale anti Covid-19 acquistando dieci milioni di dosi di vaccini Pfizer da Fosun Pharma, colosso farmaceutico con sede a Shanghai che detiene l’esclusiva per la distribuzione non solo per la Cina continentale ma anche per Taiwan. Non è l’unico esempio. Sempre in rappresentanza del governo di Taipei, Morris Chang ha partecipato per sei volte ai summit annuali dei leader della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC). Impegno che gli è valso la consegna della medaglia dell’ordine di Sun Yat-sen da parte di Tsai Ing-wen, prima che quest’ultima lasciasse la presidenza. Nel summit APEC del novembre 2022, a Bangkok, Chang ha avuto anche un breve colloquio con Xi Jinping.
Pechino non vuole Taiwan per i chip. Se mai ci sarà un conflitto, non sarà per i chip. Se non ci sarà un conflitto, non sarà merito solo dei chip. Mantenere aperto il loro commercio può essere semmai considerato un parziale elemento di deterrenza
Infine, c’è una ragione strategica. Va sgombrato il campo da una semplificazione assai riduttiva: Pechino non vuole Taiwan per i chip. Se mai ci sarà un conflitto, non sarà per i chip. Se non ci sarà un conflitto, non sarà merito solo dei chip. Mantenere aperto il loro flusso tra le due sponde dello Stretto può essere semmai considerato un parziale elemento di deterrenza. Il sospetto dei taiwanesi è però che l’importanza data all’industria da parte degli Stati Uniti sia assai elevata, forse troppo. L’annuncio dei nuovi investimenti negli States segue d’altronde anni in cui ambienti vicini ai repubblicani trumpiani hanno tenuto una retorica dai toni altissimi sui chip. Elbridge Colby, scelto da Trump per un ruolo di vertice al Pentagono, è noto per essere favorevole alla distruzione delle fabbriche di chip di Taiwan in caso di invasione di Pechino. Nel 2023, Colby ha affermato pubblicamente che “distruggere TSMC” per evitare che le sue strutture finiscano nelle mani della Repubblica Popolare.
Dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, Trump ha minacciato dazi fino al 100% per cento sui semiconduttori fabbricati a Taiwan. “Ci hanno rubato il nostro business”, ha ripetuto più volte il presidente americano, nonostante si tratti di un’accusa come già visto senza fondamento. Contestualmente, Trump ha congelato gli aiuti esteri, impattando anche su quelli destinati da Biden alla difesa di Taiwan. E, a differenza del suo predecessore, non si è impegnato a intervenire in caso di attacco esterno. Sommando le immagini dello scontro con Zelensky e le mosse della Casa Bianca tra Ucraina e Russia, si capisce bene perché a Taiwan l’annuncio del nuovo maxi investimento da 100 miliardi di dollari non sia stato certo accolto con entusiasmo unanime. Non solo per una questione economica, ma persino di sopravvivenza. “Dove andrà a finire la sicurezza di Taiwan quando non avrà più la montagna sacra che la protegge?”, ha chiesto Fu Kin-chi, il capogruppo dell’opposizione del Guomindang. “Il governo di Lai Ching-te crede davvero di poter svendere il nostro scudo di silicio come tassa di protezione?”, ha chiesto invece l’ex presidente Ma Ying-jeou. I più ottimisti credono che il piano possa funzionare, mantenendo allo stesso tempo la produzione più avanzata a Taiwan. Ma c’è chi teme che le pressioni per il trasferimento tecnologico a favore di Intel siano solo rimandate, non evitate. Anche tra i sostenitori del governo, c’è chi teme di aver ceduto troppo facilmente una possibile leva di deterrenza. Anche perché c’è chi è convinto che Trump possa in un futuro nemmeno troppo lontano tornare alla carica per forzare una joint venture con Intel, arrivando a quel temutissimo trasferimento tecnologico che farebbe perdere valore a Taiwan, quantomeno nell’opinione di alcuni occidentali.
In realtà, come spiegato da diversi componenti dell’amministrazione Trump, il disgelo con la Russia dovrebbe nei piani servire a concentrarsi maggiormente sull’Asia-Pacifico. Ma in diplomazia e strategia gli annunci non bastano, soprattutto se accompagnati a una più ampia messa in discussione delle storiche partnership e alleanze regionali, a partire da quelle con Giappone e Corea del Sud. Per provare ad ammansire Trump, Taipei punta ad acquistare un maxi pacchetto di armi e a portare le spese di difesa al 3% del PIL. Peccato che lo stesso Colby abbia chiesto a Taiwan di arrivare al 10%. Un’impresa impossibile, forse anche futile senza la certezza dell’aiuto americano in caso di contingenza militare.
Nel frattempo, il governo taiwanese guidato dal Partito progressista democratico (DPP) e dal presidente Lai, che Pechino considera un “secessionista radicale”, prova a contenere lo scetticismo interno. In una conferenza stampa congiunta con Wei, al suo ritorno da Washington, è stato rivendicato l’accordo come un “successo” che dà “maggiore forza” a Taiwan “sul palcoscenico internazionale”. L’amministratore delegato di TSMC ha garantito che la “vera ricerca e sviluppo” sui chip di nuova generazione resterà a Taiwan, dove il numero di ingegneri rimarrà dieci volte superiore a quelli inviati negli Usa. Traspare minore entusiasmo dalle parole del ministro dell’Economia J.W. Kuo, il quale in un discorso più ampio sulle relazioni commerciali ha dichiarato che in ogni caso “Trump rimarrà in carica per quattro anni e non potrà correre per un altro mandato, dunque la sua influenza resterà circoscritta”.
La sensazione, però, è che le mosse della Casa Bianca siano difficilmente reversibili. Già durante il suo primo mandato, con la telefonata all’allora presidente taiwanese Tsai Ing-wen, Trump accelerò o addirittura diede il via a una serie di processi ancora in corso sullo Stretto di Taiwan. Una lenta, ma costante, erosione di uno status quo la cui tenuta pare sempre più in discussione.