Il gigante sudamericano alle prese con il dilemma economico, politico e sociale legato alla produzione di energia. Lula vuole un'economia sempre più green ma le politiche progressiste hanno ancora bisogno dei proventi da combustibili fossili
Il Brasile è un Paese con un grande potenziale per l’uso delle energie rinnovabili. Il clima tropicale umido garantisce abbondanza di risorse idriche, facilità di produzione di biomassa vegetale e intensa luce solare durante tutto l’anno. Inoltre, nelle regioni aride del Paese, nel Nordest, i forti venti facilitano l’utilizzo dell’energia eolica.
Oggi i combustibili fossili rappresentano circa il 36% del consumo totale di energia brasiliana, mentre le fonti rinnovabili rappresentano già il 47% di questo consumo. In confronto, i combustibili fossili rappresentano circa il 71% dell’energia totale utilizzata dall’Unione Europea, e le energie rinnovabili rappresentano solo circa il 17% di questo totale (sebbene questa percentuale sia molto più elevata in alcuni paesi, come la Svezia).
Per chi aspira a un posto di rilievo sulla scena internazionale, essere in prima linea nella transizione energetica, perseguita oggi dalla maggior parte dei paesi, sarà un vantaggio innegabile. Ecco perché una serie di azioni che nel 2023 hanno coinvolto il governo del presidente Lula e Petrobrás, la compagnia petrolifera brasiliana, una società a capitale misto, diretta dallo Stato, sono state una sorpresa per molti.
A cominciare dalla decisione di esplorare il petrolio sulla costa amazzonica, aumentando i rischi ambientali in una regione fragile e strategica dal punto di vista ambientale. Poi, in coincidenza con la COP28, l’annuncio che il Paese può unirsi al gruppo dei paesi esportatori di petrolio, l’OPEP+, e che può aprire una filiale in Medio Oriente, Petrobras-Arabia. Proprio la Petrobras, che, dopo uno scandalo internazionale, si
diceva che dovesse dedicarsi alla produzione di fertilizzanti…
La posizione ambigua del governo brasiliano aiuta a comprendere alcuni ostacoli alla transizione energetica nel mondo, che non riguardano la disponibilità di fonti alternative e nemmeno lo sviluppo tecnologico (difficoltà oggettive, ma forse meno decisive di quanto si immagini). Si tratta di ostacoli legati alla ricerca del profitto e alla pressione del mercato, che trascendono la mera volontà degli attori sociali.
Che ci piaccia o no, viviamo in economie di mercato e, a quanto pare, i mercati sopravvivranno alla transizione energetica. Pertanto, comprenderne le sue condizioni e le sue imposizioni è fondamentale per il successo della transizione energetica.
Il Brasile è un paese esportatore di materie prime che incontra difficoltà nell’aggiungere valore ai propri prodotti attraverso la lavorazione industriale. Le sue riserve petrolifere, la maggior parte delle quali non sono ancora state esplorate, sono un ovvio bersaglio dell’avidità non solo degli imprenditori privati, ma dello Stato stesso. Nata e cresciuta nella logica sviluppista, la Petrobrás è oggi la più grande azienda brasiliana e l’unica azienda dell’America Latina tra le dieci più redditizie nel 2022. E’ un vettore di sviluppo, canalizzando investimenti, risorse e servizi là dove si è stabilita, ed è anche un importante strumento di contrattazione politica.
L’importanza anche finanziaria di Petrobrás per lo Stato brasiliano è evidente in un momento come quello attuale, in cui il governo fatica a eliminare il deficit pubblico e a ridare fiducia agli investitori privati. Nel 2023, il disavanzo brasiliano (entrate meno spese) è stimato tra l’1,3% e l’1,7% del PIL. Nello stesso anno, a causa della riduzione del prezzo del petrolio sul mercato internazionale, si stima che le entrate federali nette provenienti dalla compagnia petrolifera risulteranno ridotte di qualcosa vicino allo 0,6% del PIL. In altre parole, un terzo del deficit primario dello Stato può essere collegato al calo delle entrate della Petrobrás.
L’estrazione di petrolio e gas naturale, tuttavia, rappresenta una scommessa ad alto rischio per il Brasile, creando tensione politica sui governi che desiderano presentarsi come progressisti. Inoltre, il ritorno finanziario sui nuovi investimenti si verificherà in un futuro incerto, in termini di utilizzo e valore dei combustibili fossili.
Di più, nei nuovi contesti del mondo globalizzato, il ritorno sociale della stessa attività estrattiva è dubbio. Nelle aree di estrazione di gas e petrolio già insediate in Amazzonia (Coari e Silves), la vita sociale si sta degradando, con la perdita delle attività economiche tradizionali senza l’integrazione della popolazione in quelle di nuova creazione. Nel contempo le condizioni urbane dei piccoli centri stanno peggiorando in modo critico.
Un’altra situazione peculiare del Brasile riguarda l’uso dell’energia nucleare. Il Paese dispone di tre centrali, tutte situate nel comune di Angra dos Reis, a Rio de Janeiro. La costruzione degli impianti è iniziata nel 1972, la prima è entrata in funzione nel 1985, la seconda nel 2001. La terza dovrà entrare in funzione nel 2026. Anche questi impianti sono gestiti da una società a capitale misto, l’Eletronuclear, e attualmente forniscono circa il 3 % dell’energia elettrica consumata nel paese.
Il Brasile aveva bisogno dell’energia nucleare? Se sì, perché non sono state costruite altre centrali? Il fatto è che il Paese dispone di numerose fonti energetiche alternative, e non aveva bisogno di investire nel nucleare. La decisione di costruire gli impianti fu presa dal governo militare dell’epoca, che considerava il dominio dell’energia nucleare una questione di sicurezza nazionale.
Oggi queste centrali nucleari sono al centro di intense controversie. Sono state costruite su una faglia tettonica, in una delle rare aree di non sicurezza geologica del Paese, su una costa montuosa, poco adatta a una rapida evacuazione in caso di emergenza. Il problema delle centrali nucleari è che gli incidenti sono rari, ma devastanti…
Comunque ci sono e stanno producendo energia. Difficile che un Paese dalla situazione economica precaria, che ha drammaticamente bisogno di investimenti in infrastrutture e servizi, opti per i costi diretti e indiretti della disattivazione di questi impianti.
Il Brasile occupa oggi il terzo posto nel ranking mondiale in termini di capacità installata di energia rinnovabile, utilizzando principalmente la generazione idroelettrica. In un periodo di 10 anni, l’energia rinnovabile in Brasile è cresciuta di circa il 30%. Tuttavia, ci sono ancora sfide da affrontare, come la necessità di investimenti in infrastrutture e tecnologia per migliorare la produzione e ridurre i costi.
L’energia idroelettrica, pur non essendo inquinante, comporta importanti impatti socio- ambientali, legati alla costruzione di dighe. Inoltre, la crisi climatica avrà conseguenze ancora poco chiare sulla disponibilità di acqua nel Paese. Il suo utilizzo, per essere garantito ed efficiente in futuro, richiede l’integrazione con altre fonti rinnovabili, come l’energia eolica, solare e i biocarburanti. Si tratta di alternative che richiedono creatività, innovazione e investimenti.
Le fonti energetiche tradizionali rappresentano attualmente, per il Brasile, un’opzione per il passato conosciuto, non per il futuro auspicato. Nessuno qui mette in dubbio la fattibilità e il futuro delle nuove fonti energetiche, ma queste implicano nuove configurazioni del parco energetico e cambiamenti radicali del mercato.