Toccata direttamente dal conflitto in Ucraina, l'Unione europea non riesce a proporsi come attore di pace. Spiazzata dalle intenzioni di Trump, agisce più contro il negoziato tra il presidente americano Putin e Zelenski che a favore di una soluzione che porti alla fine del conflitto
Fin dai suoi esordi, la guerra tra Russia e Ucraina è sfuggita a ogni categorizzazione. Lo scontro tra le rispettive narrazioni l’ha subito resa un conflitto fuori dal comune, una guerra tra il Bene e il Male. Il fatto che si svolgesse sul continente europeo, quasi ottant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ha colpito gli animi, tanto più che per la maggior parte delle persone si è trattato del primo conflitto del genere dal 1945. I bombardamenti sulla Serbia da parte della NATO nel 1999, illegali dal punto di vista del diritto internazionale in quanto non autorizzati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, non hanno infatti lasciato tracce rilevanti nella memoria occidentale, caratterizzata da una variabilità selettiva. Ancora più inquietante è il fatto che, sebbene ufficialmente questa guerra coinvolgesse due vicini, ucraini e russi, tutti sapessero che dietro le quinte si stagliavano, alla stregua di ombre cinesi, le due maggiori potenze nucleari del pianeta: gli Stati Uniti d’America e la Federazione Russa. Gli ucraini si sono trovati stretti in un “sandwich” di interessi ben più grandi di loro, condannati a fornire carne da cannone, rei di non aver colto abbastanza in fretta il ruolo di “proxy” che gli occidentali gli avevano riservato, o forse, nel caso di certi nazionalisti e ultranazionalisti di Kiev, di averlo compreso fin troppo bene, e forse persino desiderato! L’interruzione del processo negoziale di Istanbul nel marzo 2022, in seguito alla visita a Kiev del Primo ministro britannico Boris Johnson, ha conferito al conflitto i contorni che conosciamo oggi: quelli di un nuovo conflitto mondiale a bassa intensità. Ora, un conflitto mondiale tra grandi potenze nucleari, qualunque sia la sua intensità, non lascia che due possibilità: o lo si ferma, o si rischia l’apocalisse.
Come fermare una guerra i cui obiettivi da entrambe le parti non sono noti e i cui protagonisti non manifestano ufficialmente alcun segno di stanchezza? La storia delle mediazioni passate non offre alcun aiuto. Esistono numerose tecniche e metodi che possono essere messi al servizio dei belligeranti desiderosi di porre fine alle ostilità, ma nessuna, salvo la forza, che possa costringerli a cessare i combattimenti contro la loro volontà. Mutatis mutandis, questa situazione, apparentemente senza via d’uscita, mi ricorda quella che ho vissuto quando ero ambasciatore della Svizzera in Indonesia all’epoca dello tsunami del 2004. La provincia di Aceh, situata nel nord-ovest dell’isola di Sumatra, al largo della quale si era verificato il terremoto all’origine dello tsunami che ha causato la morte di quasi 300.000 persone, viveva sotto la legge marziale, a seguito della trentennale guerra latente tra il governo centrale e il GAM (Movimento per l’Aceh libero), che rivendicava l’indipendenza della provincia. Prima dello tsunami, ogni tentativo di mediazione era fallito. Dopo lo tsunami, con il contributo del peso dei morti, il nuovo mediatore, Martti Ahtisaari, ex alto funzionario delle Nazioni Unite, già presidente della Finlandia e futuro Premio Nobel per la pace 2008, trovò il tono giusto, diretto e brutale, per far giungere a compimento un processo di pace che perdura ancora oggi. Un rappresentante indonesiano mi raccontò lo stupore da cui venne colto quando vide Ahtisaari interrompere bruscamente il primo intervento del leader del GAM, che stava ripetendo le rivendicazioni massimaliste della sua organizzazione, chiedendo alla sua assistente di aprire la porta della sala riunioni e avvertendo il “ribelle” che, se non avesse cambiato immediatamente il suo discorso, sarebbe stato lui stesso ad andarsene, “lasciando la sala e tornando a casa a bordo del primo aereo”; “voi non sarete mai indipendenti, né finché vive lei, né finché vivo io!”.
Il metodo Ahtisaari funzionò in quel caso, anche se in seguito fallì in Asia meridionale e nei Balcani. Ha forse qualche possibilità di successo nel conflitto russo-ucraino? Con i necessari adattamenti, ritengo che sia l’unico metodo che offra delle prospettive di successo. Del resto, questo approccio ha già iniziato a essere messo in atto e a produrre i primi effetti positivi. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe effettivamente essere paragonata allo tsunami che fu all’origine della soluzione del problema di Aceh, anche se i cambiamenti bruschi di un temperamento piuttosto lunatico non offrono alcuna garanzia sul lungo periodo. Senza alcuno scrupolo il nuovo inquilino della Casa Bianca ha modificato radicalmente la narrazione occidentale: la “guerra tra il Bene e il Male” professata dal suo predecessore è diventata una “guerra che avrebbe potuto e dovuto essere evitata”, mentre la guerra “che non può terminare se non con la sconfitta totale della Russia” adesso deve “terminare immediatamente”. Il metodo poco ortodosso di Trump ha già cominciato a dare i suoi frutti a Riyad. Non si tratta ancora di pace, e nemmeno di una vera e propria negoziazione, ma dei primi segnali che vanno verso la giusta direzione.
Donald Trump non è un uomo di pace e non è nemmeno candidato al Premio Nobel, come ci ricorda la sua politica in Medio Oriente, ma ha dato degli impulsi che potrebbero avviare un processo di pace in Ucraina. Quali sono?
Prima di tutto, l’aver abbandonato la narrazione secondo cui la crisi avrebbe avuto inizio nel 2022. L’aver riconosciuto la corresponsabilità occidentale. L’aver cessato di considerare Vladimir Putin come un uomo pestifero, diabolico e infrequentabile. L’aver esercitato le pressioni necessarie sui bellicisti di ogni schieramento che, per ogni sorta di ragioni, auspicano il proseguimento della guerra: l’Ucraina di Zelenski, l’UE e i suoi principali Stati membri – la Francia e la Germania, – nonché il Regno Unito. La recente accoglienza del presidente ucraino alla Casa Bianca ha permesso alla nuova amministrazione americana di far capire alla parte ucraina che l’opzione di “continuare la guerra fino alla riconquista di tutti i territori perduti” fosse definitivamente sepolta. Gli europei sono più duri. Non accontentandosi di continuare a incitare Zelenski a proseguire le ostilità “fino all’ultimo soldato ucraino”, sono prigionieri della loro stessa narrazione e si sono lasciati prendere dal gioco della guerra, prospettando di parteciparvi indirettamente o persino direttamente. Gli annunci, tanto affrettati quanto sconsiderati, di decuplicare le loro capacità militari – “costi quel che costi” – confermano che il vecchio continente si trova ormai sul sentiero della guerra. Non passa quasi più settimana senza una conferenza di coordinamento convocata dal presidente Macron o dal Primo Ministro Starmer, durante le quali il primo non perde occasione per giocare con il suo bottone nucleare. Proprio come il nuovo Cancelliere tedesco Friedrich Merz, Macron ha deciso, nella solitudine del suo ufficio all’Eliseo, che la Russia costituisce d’ora in poi una “minaccia esistenziale” per la Francia! L’Europa si trova di fronte a un bivio: o cambia paradigma e si impegna con determinazione a intraprendere il cammino della pace, oppure sceglie uno scontro a lungo termine con la Russia, che le costerebbe ben più di quanto possa immaginare, in termini finanziari, economici e umani.
L’epoca che seguirà la guerra in Ucraina avrà per l’Europa lo stesso significato storico di quelle che hanno fatto seguito alle due Guerre mondiali e alla fine della guerra fredda. L’Europa dovrebbe essere ben consigliata a non sbagliarsi.
Prima a risultare coinvolta in questa guerra, l’Europa dovrebbe essere, infatti, la prima a essere interessata a porle fine. Invece di adoperarsi in tal senso, si lascia nuovamente catturare dai suoi demoni storici. Quelli del luglio 1914, che la fecero precipitare come una sonnambula nella Prima Guerra mondiale, cancellando dalla carta geografica quattro imperi e causando la morte di 20 milioni di persone. Quelli del 1918, che prepararono la guerra del 1939. Quelli di “Monaco 1938”, con riferimento all’incontro Hitler-Daladier-Chamberlain, l’ingiuria suprema che la maggioranza favorevole alla guerra scaglia contro chi osa oggi parlare di pace. Stretta nella morsa tra una Russia in conflitto e gli Stati Uniti divenuti ostili, l’Europa può ridestarsi, rinchiudere i propri demoni nelle rispettive scatole e passare dalla parte giusta della storia.
Non possiamo cambiare né le nostre famiglie né i nostri vicini. A differenza degli Stati Uniti, l’Europa avrà sempre la Russia come vicina più prossima. È del tutto naturale che con lei si debba trovare un modus vivendi. Invece di prepararsi a condurre una “guerra esistenziale” assurda contro la Russia, l’Europa deve contemplare un’esistenza serena con Mosca. Per troppo tempo si è accontentata di recitare il ruolo di marionetta sotto tutela, ogni volta che Washington cercava lo scontro, per non cogliere questa occasione storica di riprendersi il controllo della propria storia e del proprio destino. Questa ripresa di controllo passa attraverso la ricerca della pace e la ricostruzione di una vasta architettura di sicurezza collettiva continentale. Se per gli Stati Uniti – come sappiamo fin dai tempi di Brzezinski – la Russia è un concorrente nella corsa all’egemonia planetaria, per l’Europa può essere un formidabile partner economico. Respinta dall’America, la sua “alleata storica”, l’Europa non si era mai vista offrire dalla storia un’occasione tanto propizia per recidere il cordone ombelicale che l’ha mantenuta in una situazione di dipendenza, spesso tossica, da Washington. Se non è presente al tavolo dei grandi, che intendono spartirsi le zone d’influenza, un’Europa ragionevolmente armata di una dissuasione credibile potrebbe divenire un attore di primo piano, che ha scelto non di mostrarsi aggressiva, bensì desiderosa di trovare soluzioni di buon vicinato con tutti. Questo scenario, lungi dall’essere utopico, sarebbe realistico e nel palese interesse del vecchio continente, che tornerebbe così a quei valori di cui si è sempre ritenuto depositario.
Ciò di cui l’Europa ha più bisogno nel 2025 sono leader capaci di immaginare e attuare un futuro che non sarà segnato da una corsa agli armamenti con la Russia. Tali leader coglierebbero al volo l’occasione che Trump gli sta offrendo, per imboccare a loro volta il cammino della pace, inviando segnali chiari a Mosca circa la volontà di cambiare narrazione, ascoltare i risentimenti dei russi e sedersi a un tavolo simile a quello che, il 1° agosto 1975, portò alla firma dell’Atto finale di Helsinki. Occorre coraggio per fare inversioni a 180 gradi, ma la politica non richiede forse coraggio?
Si può immaginare uno scenario del genere se la guerra in Ucraina continua? No, ed è per questo che è urgente anzitutto fermarla, per concedersi la possibilità di creare una situazione favorevole. In confronto ai lavori erculei che attendono quei leader per ricostruire un mondo europeo vivibile, fermare la guerra non appare certamente come l’ostacolo più insormontabile. Tuttavia, all’orizzonte non si scorgono ancora politici responsabili e capaci di comprendere ciò che diceva Nelson Mandela di fronte alla “sfida insormontabile” di porre fine all’apartheid: “per fare la pace con un nemico, bisogna lavorare con quel nemico, e quel nemico diventerà vostro partner”!
All’Europa di oggi non mancano né le idee né gli scenari per delineare il proprio futuro, ma chiaramente le manca un Mandela per scriverli. Trovandosi al bivio, l’Europa non dispone più di molto tempo per prendere le decisioni giuste. Nel momento in cui Washington riallaccia i rapporti con Mosca, può forse l’Europa permettersi di rompere con il suo grande vicino orientale?