Le economie dei paesi del G7 sono in affanno rispetto alla tendenza alla crescita del mondo che ne è escluso. La globalizzazione sembra destinata a frammentarsi in una logica multipolare.
La devastazione materiale e immateriale delle democrazie occidentali, de-valorizzate, mercificate e precarizzate, è insieme sintomo e condizione della preservazione dei privilegi di quell’1% che siede in cima alla piramide.
Violando l’assennato consiglio di non azzardare previsioni, soprattutto quando riguardano il futuro, si tenterà un’approssimazione di possibili scenari, muovendo da un’esegesi critica, tenendo a mente che in un articolo ogni asserzione è apodittica per definizione e richiede dunque l’indulgenza del lettore.
L’evidenza indica che il mondo esterno a The West (6,5-7,2 mld di individui, a seconda della costellazione di riferimento) è quanto mai eterogeneo. Una parte non possiede la forza di opporsi al dominio Usa, un’altra si piega a posizioni gregarie, una terza parte intende giocare un ruolo attivo, sottraendosi alla presa del corporativismo occidentale. Alcuni osano sfidare apertamente la mistificata teleologia del politologo F. Fukuyama, secondo il quale tutte le nazioni del pianeta sono destinate a precipitare nell’imbuto di democrazia liberale/economia di mercato. Un’epistemologia di genesi accademica che punta a perpetuare i privilegi imperiali con il neocolonialismo ideologico.
Nel suo insieme, nonostante le tante insidie, il mondo non-occidentale (più popoloso e teleologicamente motivato) vive oggi un inedito momento d’effervescenza.
Qualche dato. Al 31 dicembre 2023, secondo le proiezioni del Fondo monetario Internazionale il Pil dei paesi G7 sarà di 45.910 mld $ in potere d’acquisto internazionale (PAI) e di 52.151 mld $ in parità di potere d’acquisto (PPP) . Per i paesi Brics, i dati sono rispettivamente 27.651 mld $ in PAI e 56.045 mld $ in PPP, dunque già ora superiori, sebbene i G7 siano appunto sette e i Brics solo cinque! Se si aggiungono i paesi che hanno già chiesto di farne parte – Algeria, Argentina, Bangladesh, Bahrein, Belarus, Bolivia, Venezuela, Vietnam, Honduras, Egitto, Indonesia, Iran, Cuba, Kazakistan, Kuwait, Marocco, Nigeria, Emirati Arabi Uniti, Palestina, Arabia Saudita, Senegal, Thailandia, Etiopia – il Pil dei Brics (secondo le proiezioni del FMI) nel dicembre 2023 raggiungerà i 35.313 mld $ in PAI e di 77.622 mld $ in PPP.
Resta indubbio che se al G7 si sommano le nazioni occidentali che non ne fanno parte la ricchezza del mondo sviluppato è ancora maggiore. Tuttavia, le distanze si accorciano ogni giorno, poiché il mondo emergente cresce a tassi medi più elevati.
I paesi poveri, dunque, non sono più condannati al loro destino, e insieme alla crescita dei redditi sperimentano anche una graduale de-occidentalizzazione e de-americanizzazione, seppure con accentuazioni e velocità distinte a seconda di tempi e contesti. Si tratta di un processo che non prelude al ripudio dell’ordine internazionale, definitivamente plurale, ma a una ridefinizione dell’interazione valoriale, economica e politico-militare, che rimodulerà la distribuzione di potere e ricchezza, soprattutto se le nazioni resistenti sapranno difendere la loro sovranità contro le interferenze neocoloniali.
Per le nazioni medio-piccole, in particolare, tale processo costituisce un orizzonte insidioso, esposto a minacce e ricatti, poiché le truppe neocoloniali tendono a nascondersi dietro le buone intenzioni, scambi culturali, commerci e investimenti.
Un altro neologismo, che se divenisse realtà metterebbe a repentaglio la stabilità del Regno del Bene, appare di ancor più agevole lettura. Si tratta della (ipotetica) bi-globalizzazione Usa-Cina, sul modello Stati Uniti-Unione Sovietica al tempo della guerra fredda. Non solo gli Usa sono accanitamente contrari a tale ipotesi, ma essa è del tutto incoerente con la realtà.
Come sappiamo, il momento unipolare Usa è tramontato alle soglie del secolo XXI, in concomitanza col ritorno della Russia e il consolidamento dell’ascesa cinese. Con esso è uscito di scena anche l’ipotetico oligopolio di un ristretto gruppo di happy few, le cosiddette Grandi Potenze al quale la Cina avrebbe potuto unirsi solo accettando di lasciarsi invadere, almeno in un orizzonte di medio periodo, dal capitalismo occidentale. Un destino indigeribile per Pechino.
La guerra fredda fondava le sue radici sulla contrapposizione ideologica tra diversi modelli politici, economici e istituzionali. L’appartenenza all’uno o all’altro fronte implicava una scelta di campo: capitalismo o comunismo, economia centralizzata o di mercato, suffragio universale o
centralismo democratico. A 34 anni dalla caduta del Muro di Berlino (ma non di tutte le forme del comunismo novecentesco, di cui l’impero sovietico non aveva il monopolio), un’ipotetica divergenza tra Occidente (The West a guida Usa) e mondo resistente (the Rest: Brics 3, Sco 4 etc.), che attribuisse ai due campi caratteristiche ideologiche costitutive sarebbe priva di fondamento. La ragione principale dell’odierna contrapposizione tra i due campi si basa sulla nozione di sovranità/indipendenza, che implica libertà di scelta da parte di ciascuno del sistema economico e istituzionale nel quale intende vivere e prosperare: mentre in Occidente il controllo della ricchezza è in mani private (che giù per li rami controlla politica, informazione e accademia), in Cina (e in misura minore in Russia, Venezuela, Iran e altri, oltre agli altri quattro sopravvissuti paesi comunisti) esso è nelle mani dello Stato, una barriera ben più ardua da valicare.
Quanto alla Cina, che costituisce il principale sfidante dell’unipolarismo Usa, essa non manifesta alcun intento di sostituirsi a quest’ultimo. Per la dirigenza di Pechino tale ambizione è incompatibile con le sue tradizioni e soprattutto con i suoi interessi. Dopo stabilità politica e l’unità del
paese, la sua priorità è infatti costituita dalla crescita economica, che verrebbe compromessa se dovessero imporsi costosi obiettivi geopolitici o militari (secondo il modello Usa).
Infine, ed è questa la terza ragione, il mondo resistente/emergente reclama la sua parte. Oltre alla Russia, media potenza economica, ma grande potenza militare, i Brics includono India, Brasile, Sud Africa e tra poco altre nazioni che puntano a uscire dal sottosviluppo nel rispetto delle proprie caratteristiche nazionali, senza abbracciare un modello uniforme, nemmeno quello cinese che pure vanta successi straordinari, con la nota politica di riforme e apertura di Deng Xiaoping (1978).
Il multipolarismo che si affaccia all’orizzonte offre dunque l’opportunità di legittimare la disomogeneità dei sistemi economici o istituzionali, sulla scorta dell’universalizzazione della geniale formula di Deng Xiaoping: non importa il colore del gatto (il sistema politico-ideologico)
purché acchiappi i topi (lo sviluppo).
In estrema sintesi, il futuro vedrà il presumibile imporsi di una multi-globalizzazione a presenza modulare, con tre grandi potenze (Usa, Cina e Russia) e le altre nazioni aggregate per interesse o sicurezza. Quanto all’Unione Europea, o come la si vuol chiamare, da tempo non più
protagonista sulla scena internazionale, essa potrà recuperare un suo ruolo, arrestando il suo declino anche economico, solo se una diversa classe dirigente troverà il coraggio di incamminarsi in altra direzione, quella di una Confederazione Europea di stati sovrani. Ma questa è un’altra storia e l’auspicio espresso, rebus sic, stantibus, assai improbabile.