Washington e Bruxelles: crisi profonda

Un articolo di: Daniele Mancini

Con il ritorno di Trump le priorità tra le due sponde dell'oceano sono radicalmente cambiate. Non è la prima crisi transatlantica, ma è la più grave, forse quella fatale. Sullo sfondo, l'opposta concezione del ruolo dell'Ucraina

La frenesia distruttiva dell’ordine internazionale liberal-democratico perpetrata in diretta televisiva “h24” dal Presidente Trump scaglia gli europei all’interno di un quadro di Hieronymus Bosch, li catapulta in una giungla hobbesiana nella quale rivivono gli incubi dal quale pensavano di essersi per sempre emancipati, li rende spettatori partecipi dell’”urlo” di Edvard Munch: un precipizio senza fine. Sbatte loro in faccia che su quel cumulo di macerie spunta la costruzione di un compromesso strategico tra Stati Uniti, Russia e Cina, realizzato alle loro spalle. Per Trump il destino dell’Ucraina non è il terreno di uno scontro esistenziale tra democrazie liberali ed autocrazie, come lo era per Biden: è piuttosto una pedina nella rivalità tra grandi potenze. È dunque attorno alla sovranità di Kiev che i nuovi equilibri globali si vanno delineando. L’Ucraina degli anni Venti del nostro secolo ricorda la Spagna della Guerra civile in cui vennero condotte le prove generali della Seconda Guerra mondiale e poste le premesse per il mondo di Yalta, quello che Milan Kundera aveva definito “l’Occidente rapito”, dominato dalla forza bruta, che non riconosce altra legge che la propria. Oggi come allora la democrazia liberale è superata e va gettata via come un medicinale scaduto?

Siamo solo all’inizio di un terremoto provocato dalla Casa Bianca che induce cambiamenti irreversibili nel panorama geopolitico ma anche ideologico del pianeta. È come se Trump avesse firmato un ennesimo Ordine Esecutivo, decretando la fine di quella comunità di valori e destini che per ottant’anni si è chiamata Occidente, che ormai torna ad essere ciò che per millenni era stata: una nozione geografica. Tanti necrologi sono stati scritti sul tramonto dell’Occidente, a cominciare da quello di Oswald Spengler e passando per il concetto di “Westlessness”: l’incertezza sulla traiettoria dell’Occidente e la sua capacità di far fronte alle sfide di un mondo che non comprende più. Tuttavia, questa volta è diverso: l’Occidente viene attaccato non dall’esterno, non da chi, come l’Unione Sovietica prima e la Russia e la Cina poi, avevano sempre tentato di fare, ma dall’interno. Il grande picconatore è l’America di Trump, il decoupling viene promosso da Washington, che sta distruggendo, alla velocità della luce, l’immagine e la propria rete di alleanze nel mondo.

Non è la prima crisi transatlantica, solo la più grave, forse quella fatale. Nel 1966, De Gaulle ritirò la Francia dal comando militare integrato della NATO; nel 2003 Chirac e Schroder rifiutarono di seguire Bush nell’avventura irachena, con il Segretario alla Difesa Rumsfeld che aveva coniato la famosa frase “gli europei vengono da Venere e gli americani da Marte”. Oggi, però, il veleno inoculato nelle vene della democrazia americana dall’assalto al Campidoglio ha fatto il suo corso e sviluppa una visione eugenetica del potere. Non esiste più l’America conservatrice e “bonaria” di Reagan, annichilita da quella reazionaria e incattivita, quella che intende mettere indietro le lancette dell’orologio. Nella prima, il quarantesimo Presidente americano chiedeva a Gorbaciov di abbattere il Muro di Berlino, nella seconda, il quarantasettesimo considera il Presidente russo una persona “affidabile”.

Il disegno strategico appare di lettura semplice: per l’establishment americano la Russia non è più un avversario in grado di incutere timore – che già Obama definiva “una stazione di benzina con missili nucleari” – e quindi prova a staccarlo da Pechino, il vero avversario esistenziale, e pertanto lascia agli europei la gestione della propria sicurezza. Ma il dividi et impera di Trump non è la riedizione di quello di Nixon orchestrato con la stretta di mano a Mao Zedong nel 1972. Nixon gli alleati europei della NATO li teneva ben stretti; al contrario, se Putin dimostrerà di voler prendere le distanze da Xi, Trump non esiterà a dargli carta bianca in Europa e lasciargli ridisegnare l’architettura di sicurezza del Vecchio continente. In realtà, ciò che Trump dinamita non è solo quel che resta del moribondo ordine internazionale, ma anche ogni velleità di ripristino del momento unipolare americano, dato che – nonostante affermi il contrario – prende atto che il mondo è ormai organizzato attorno a grandi potenze in competizione, in poli di multipolarismo imperfetto, in cui accanto ai colossi navigano tante medie potenze in grado di dire la loro. Sia pure giocata senza diplomazia, secondo Niall Ferguson, quella di Trump è forse una mossa obbligata: una ritirata strategica resa necessaria da un debito pubblico incompatibile con gli oneri di un impegno militare planetario.

Ma l’incredulità degli europei, la loro indignazione, sono legittimi? Le avvisaglie c’erano tutte, le relazioni transatlantiche da tempo avevano superato l’high water mark. Sono vent’anni che l’America chiede agli europei di fare la loro parte per assicurare la propria difesa, perché il Pentagono sa di non poter reggere un conflitto simultaneo in Europa ed in Asia: difendendo sé stessa, l’Europa libererebbe risorse per l’America in Asia. Inutile illudersi che i cocci possano essere rimessi assieme: L’EU, nata all’ombra della NATO, è figlia di un mondo che non esiste più, quello dell’illusione che solo l’economia contasse e questa fosse strumento di stabilità e crescita, certezze afflosciatesi come cartelli di carta con il crack finanziario del 2008. L’Europa, che in tanti hanno definito unico erbivoro in un mondo di carnivori, ha dimenticato un vecchio proverbio americano: “It needs two to tango”, ed ora si trova ai bordi della pista, mix perfetto di irrilevanza strategica e paralisi politica.

Va dunque riconosciuto a Trump il merito di aver riportato gli europei alla realtà. Con amarezza essi prendono atto di ciò che non sono più. Aveva ragione Sergio Romano quando scriveva che, all’indomani della fine della Guerra Fredda, il valore di ogni nazione corrispondeva a quello del proprio face value. Sono trascorsi venticinque anni da quando Padoa Schioppa scrisse il suo bellissimo “Europa, forza gentile”, in cui descriveva la strada che mezzo secolo prima l’Europa aveva imboccato per darsi unità e pace, limitando i poteri sovrani degli Stati, opponendo alla forza rozza delle armi e dell’istinto quella gentile del diritto e della civiltà da essa stessa creata, proprio come nel mito d’Europa e il toro, dove è la fragile ninfa che doma la violenza dell’animale. L’Europa è rimasta là, piena di buone intenzioni, pronta ad aprire il suo carnet di consigli, che però nessuno intende più ascoltare, mentre intanto il mondo le gira attorno a ritmi vertiginosi.

Tante Europe vivono l’una accanto all’altra: quella che ha abolito la pena di morte e quella dei pogrom, quella della Berlino del 1989 e quella di Maidan, quella di Claudio Magris e quella di Le Pen e Weigel. Quella della sindrome del not in my backyard e quella del Next Generation EU e dell’AI-EU-ACT. Quella che si è formata sulla Magna Carta, nei monasteri benedettini, nel sorriso della Gioconda, sulle rime dell’Ode alla Gioia di Schiller, tra le righe delle Lettere dei Condannanti a morte della Resistenza europea. Ma che cos’è l’Unione Europea, che definisce sé stessa “spazio di libertà, giustizia e pace”, quella del mai più guerre, mai più dittature? Non una federazione, né una confederazione; ha una moneta unica, ma non una politica economica unica e tanto meno una politica estera; una bandiera, un inno, un Trattato, ma non una Costituzione; Presidenti, governo – la Commissione -, Parlamento, Corte, ma non una lingua comune. L’UE non cresce intorno a un centro di gravità; nata dalle ceneri di una tragedia non è disposta a commemorare il suo passato ma a garantire che non torni. E’ la prima e unica istituzione postmoderna sulla faccia della Terra, un’entità irripetibile ad altre latitudini. Tuttavia, non mancano i fiori all’occhiello: ultima trincea di diritti e regole in uno spazio globale divenuto selvaggio; il mercato più integrato al mondo; un PIL che rivaleggia con quello americano (se vi si include quello britannico) e cinese; lo Stato sociale più avanzato del mondo; uno stile di vita senza pari. Per contro, cala la sua crescita economica, così come la sua demografia: 16 dei 20 paesi con un tasso di natalità quasi pari a zero si trovano in Europa. Gli europei, il 16 per cento della popolazione mondiale nel 1950, sono ridotti al 7 per cento. I 50 Stati che compongono l’Europa – il 25 per cento del totale globale – sono racchiusi in uno spazio pari al 7 per cento della massa terrestre. Suonano premonitrici le parole di Kissinger oltre mezzo secolo orsono: “L’Europa ha cambiato il mondo ma ha dimenticato i valori che l’hanno resa grande”.

Con la guerra in Ucraina il baricentro europeo si è spostato a Nord-Est; la Brexit ha privato il continente di mezzi militari e capacità di pensiero strategico; l’allargamento ad est è da anni in letargo, la dimensione sud è trascurata. L’Europa ha bisogno di investimenti più che di regolamentazione, di decarbonizzazione ma anche di una politica fiscale ed economica a sostegno della moneta unica. Ma soprattutto di pensare la sicurezza comune ed investirvi, di sfatare il tabù della deterrenza nucleare: hard power e soft power. Il binario intergovernativo dei cerchi concentrici è la strada obbligata per consentire rapidità di azione a quei paesi che hanno mezzi e volontà.

Nessuno oggi contesta più la necessità per l’EU di un ripensamento radicale che, tra l’altro, porti ad un accorciamento della distanza tra dimensione nazionale, prevalentemente politica, e continentale, tecnocratica. Il Presidente Macron, che nel 2019 aveva denunciato la morte cerebrale della NATO, quale Capo di Stato dell’unica potenza nucleare europea del tutto indipendente dagli USA rompe uno dei tabù della Quinta Repubblica, proponendo di mettere la sua force de frappe a disposizione dell’Europa. La Gran Bretagna rifà capolino alle porte dell’Unione e l’Economist dedica una copertina al Premier Starmer – paragonandolo a Churchill – che per il controllo militare di una futura tregua in Ucraina ha proposto una coalition of the willing.

Il Cancelliere tedesco in pectore, Merz, sbandiera la necessità di rendere l’Europa indipendente dagli Stati Uniti sulla difesa. La Presidente della Commissione von der Leyen avvia il piano “ReArm Europe”, che consentirà agli Stati membri di mobilitare 800 miliardi di euro per sostenere la difesa europea, con spese che potranno essere escluse dal Patto di Stabilità. Dunque, ampliamento degli spazi di collaborazione tra i 27 più che un’iniziativa di collaborazione continentale. Ma sarebbe ingiusto sostenere che si tratti di troppo poco e troppo tardi: l’Unione reagisce solo alle frustate, come fu per il Covid. Un mondo cambiato necessita di regole nuove. Ma anche di un ripasso della Storia: negli anni Cinquanta la spinta all’unificazione europea venne anche dal timore che gli Stati Uniti ritirassero le loro forze dal continente. Il fallimento della Comunità Europea di Difesa è ricco di insegnamenti e suonano attuali le parole di De Gasperi: la difesa comune “è il compito della nostra generazione”.

Ciò che era impensabile fino a pochi anni addietro ora diviene inevitabile: e una riconfigurazione delle responsabilità è necessaria, in questo l’antieuropeista Trump un risultato l’ha già ottenuto. La sfida non è quella di sostituire gli americani in Europa ma di creare una forza di dissuasione autonoma. Se possibile di concerto con gli Stati Uniti, facendo loro comprendere che non è nel loro interesse trasformare 450 milioni di europei dai più affidabili alleati ad avversari carichi di risentimenti. L’Europa saprà diventare una sola nazione, come suggerito da Mario Draghi, nella convinzione che rimanere fermi garantisce solo lo scivolamento nell’irrilevanza? L’Europa non ha più il tempo che aveva Bob Dylan quando cantava “the answer is blowin’ in the wind” …

ex Ambasciatore d'Italia in India, Romania, Moldova, e presso la Santa Sede

Daniele Mancini