Biden attacca Trump e pochi giorni dopo è l’ex presidente repubblicano a prendersela con l’attuale inquilino della casa Bianca. Normale confronto politico a meno di un anno dalle elezioni. Ma non si tratta di schermaglie in punta di fioretto, piuttosto di colpi pesantissimi di durlindana. E il richiamo a un’epica bellicista non è pretestuoso, in questo caso. Perché al centro della contesa tra i duellanti c’è il costante richiamo alla guerra.
Per Joe Biden, se Trump vincesse le elezioni porterebbe a una sconfitta degli alleati al di qua dell’Atlantico, vista la vocazione isolazionista dell’ex tycoon. La premessa è che l’Europa è destinata a subire un attacco: da Russia, Cina, Iran… ?
La risposta di Trump è altrettanto tranchant ma più attuale: Biden porta gli Stati Uniti in guerra. E la motivazione è negli strikes lanciati in Yemen contro gli houthi, alleati sciiti dell’Iran. Proprio l’Iran e il suo programma nucleare sono stati un bersaglio politico costante dell’amministrazione Trump, responsabile del ritiro degli USA dall’accordo faticosamente raggiunto nel 2015 sotto Obama. Accordo noto come PACG, Piano di azione congiunto globale, che era stato sottoscritto da Teheran e dalle 5 potenze nucleari presenti nel Consiglio di sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Francia, GB) più la Germania. Rinnegato l’accordo, Trump – in perfetta sintonia con Israele – ripristinò le sanzioni contro l’Iran.
I venti di guerra di oggi sono anche l’effetto di quella rottura. Il futuro resta incerto, con il rischio di un ampliamento del conflitto israelo-palestinese che dopo il 7 ottobre è diventato esistenziale per i due principali attori: Hamas e Netanyahu.
Ma il destino di questo scontro in Medio oriente, con l’ennesimo ricorso alla forza militare “extra moenia” da parte di Washington, è lungi dal risultare sorprendente. La soluzione “manu militari” è qualcosa di più di una consuetudine, è una prassi che ha il valore di una dottrina. Figlia indiretta, a sua volta, delle tante dottrine che negli ultimi duecento anni gli Stati Uniti hanno implementato per garantirsi un’ampia libertà di manovra muscolare al di fuori dei propri confini. Dalla dottrina Monroe alla dottrina Bush, passando per quelle intestate a Eisenhower, Truman, Johnson, Nixon, Carter, Reagan, Powell, Wolfowitz. Tutte ispirate a un rafforzamento della tutela degli interessi di Washington in un raggio d’azione crescente, dilatato attraverso i cinque continenti.
Questa progressione metodologica ha avuto come effetto complessivo quello di ridurre le opzioni politiche su cui la Casa Bianca avrebbe potuto contare. Forte della propria potenza economica e finanziaria, consapevole del proprio potere militare, certo della capacità di formazione della pubblica opinione da parte della sua “macchina dei sogni” (Hollywood e non solo) il soft power made-in-Usa avrebbe potuto affrontare la maggior parte delle sfide internazionali senza ricorrere alla guerra.
A rivelare per la prima volta la strettoia in cui il Sistema si era infilato è stato Barak Obama. E lo ha fatto in maniera clamorosa quanto sofferta in una lunghissima intervista rilasciata a “The Atalantic”. Era il 2016, aprile, da lì a qualche mese Obama avrebbe lasciato la Casa Bianca dopo un doppio mandato che lo consegnava ai libri di storia come un leader non bellicista. Nessun intervento diretto degli Stati Uniti nei conflitti esplosi nel mondo durante la sua amministrazione, a cominciare da quelli maggiori: Siria e Ucraina. E anche sulla Libia, nonostante le enormi pressioni del suo inner circle, riuscì a non coinvolgere troppo direttamente le forze armate Usa, lasciando che l’ardore di Sarkozy e di Cameron si sfogasse nella operazione di “regime change” ai danni di Gheddafi.
Un’operazione che vide gli americani partecipare “behind the scenes”. Era il penoso compromesso tra un presidente per vocazione contrario all’uso della forza e personaggi rilevanti della sua amministrazione, e strenuamente interventisti, come Hillary Clinton, segretario di Stato, e Samantha Power, rappresentate degli Stati Uniti all’Onu, artefice a sua volta di una dottrina, “Responsability to protect”, all’origine del pressing anche per un intervento in Siria contro Assad. Le insistenze di queste due carismatiche personalità provocarono perfino, ricorda Obama nell’intervista a Jeffrey Goldberg, qualche vivace battibecco all’interno dello Studio Ovale.
Ma il punto chiave era un altro, e prescindeva dai protagonisti del momento.
“A Washington c’è un manuale che i presidenti dovrebbero seguire. Si tratta di un manuale che proviene dall’establishment della politica estera. Il manuale prescrive risposte a diversi eventi, e queste risposte tendono a essere risposte militarizzate.(…) Ma il manuale può anche essere una trappola che può portare a decisioni sbagliate. Nel mezzo di una sfida internazionale come la Siria, si viene giudicati duramente se non si segue il manuale, anche se ci sono buone ragioni per cui non si applica”.
Alla fine di agosto del 2013 uno strike americano contro le postazioni siriane era considerato inevitabile. C’erano le accuse di un nuovo attacco con le armi chimiche contro gli oppositori di Assad. E nonostante l’intelligence militare non confermasse il rinvenimento della “smoking gun” sulle responsabilità effettive del presidente siriano tutto era pronto per colpirlo. Ma qualche minuto prima dell’ordine di attacco Obama decise di fermare tutto, provocando uno shock all’interno dell’apparato di potere. E nell’intervista-confessione, tre anni dopo, rivendica con orgoglio quella decisione.
“Sono molto orgoglioso di questo momento Il peso schiacciante della saggezza convenzionale e l’apparato della nostra sicurezza nazionale si erano spinti abbastanza in là. La percezione era che la mia credibilità fosse in gioco, che la credibilità dell’America fosse in gioco. Quindi, se avessi premuto il pulsante di pausa in quel momento, sapevo che mi sarebbe costato politicamente. Il fatto che io sia stato in grado di allontanarmi dalle pressioni immediate e di riflettere da solo su ciò che era nell’interesse dell’America, non solo per quanto riguarda la Siria ma anche per quanto riguarda la nostra democrazia, è stata la decisione difficile che ho preso. E credo che alla fine sia stata la decisione giusta da prendere”.
La contro-dottrina di Obama non ha fatto proseliti tra i suoi più stretti collaboratori. Nemmeno il suo vice, Joe Biden, per otto anni con lui alla Casa Bianca e oggi più che mai convinto della utilità del manuale contestato da Obama. Al punto di spingere i suoi assistenti a fare opera di persuasione sui membri del Congresso a favore di un ulteriore riarmo dell’Ucraina. Non più invocando “i nostri principi, i nostri valori”, ma direttamente gli interessi economici degli Stati Uniti.
“La Casa Bianca ha sollecitato silenziosamente i legislatori di entrambi i partiti a vendere gli sforzi bellici all’estero come un potenziale boom economico in patria” hanno confidato cinque assistenti del presidente ai giornalisti di “Politico”. Secondo Biden, hanno riferito a Jonathan Lemire e Jennifer Haberkorn, finanziare l’armamento dell’Ucraina “è positivo per l’occupazione americana”.