I mercati finanziari mondiali in tumulto. La globalizzazione a picco. L’economia planetaria sulla soglia del baratro. La luna di miele della seconda presidenza Trump trasformata nel peggior incubo per i suoi avversari ma anche per i suoi alleati. All’estero come negli Stati Uniti. Dalle capitali internazionali rimbalzano gemiti di costernazione o ruggiti di indignazione. A Washington vengono messe in discussione le alleanze vitali per il presidente, come quella con Elon Musk, e la tenuta stessa della sua maggioranza al Congresso. Il racconto pressoché universale sulla guerra dei dazi vede il tycoon tornato alla Casa Bianca a un passo dall’incarnare un moderno Caligola, un comandante in capo che ha perso il senno e potenzialmente capace di nominare console il suo cavallo…Tutto convergente, e per questo convincente. Ma è davvero così? Davvero il quasi ottantenne presidente ha fortissimamente voluto tornare a guidare il paese per infliggergli recessione, povertà, disoccupazione? Per passare alla storia come il picconatore del sogno americano? Davvero sta agendo per farsi impallinare dai democratici nel voto di metà mandato, tra sedici mesi? Il mondo deve davvero fare i conti con un leader della superpotenza occidentale “fuori di testa”? Un surplus di cautela, considerata la posta in gioco, sarebbe opportuno. Non foss’altro per quello che Trump è stato fin qui. Nella vita professionale e in politica. “The Donald” è sempre stato un impresentabile: un costruttore inaffidabile, un giocatore d’azzardo immobiliare, uno straricco molto indebitato, un evasore fiscale, un personaggio da prime time televisivo e non certo un affidabile gestore di fondi dei risparmiatori. In più, in un’America sempre divisa tra puritanesimo di facciata e attrazione per il peccato, Trump ha incarnato la quintessenza del politicamente scorretto: con le donne, le minoranze, i deboli. Tutto questo era risaputo e scritto già una decina di anni fa. Quando il palazzinaro del Queens mise fine a undici anni di protagonismo in tv, con un programma di enorme successo, per lanciarsi in politica. Deriso, ridicolizzato, dileggiato quando si è candidato alle primarie del partito repubblicano. Contro aveva una decina di avversari molto più accreditati e molto più credibili, almeno sulla carta. Tra loro Marco Rubio, John Kasich, Ben Carson, Jeb Bush (figlio e fratello della dinastia presidenziale), Rand Paul, Mike Huckabee, Carly Fiorina. Nonostante il partito lo considerasse un corpo estraneo, un imbarazzo, un problema, Trump sconfisse largamente tutti gli altri candidati. E a nome di un partito repubblicano che non lo voleva sfidò la candidata democratica, Hillary Clinton. Candidatura reputata fortissima e praticamente imbattibile, soprattutto da un personaggio privo di esperienza politica come Trump. Vinse invece Trump. In questi giorni, in queste settimane, per capire dove può arrivare Trump sarebbe utile considerare il suo track record. Potrebbero emergere le linee di un progetto, alla base della trade war che ha scatenato, meno folle di quanto appaia. Un tentativo estremo di salvare la maggior parte possibile del privilegio economico di cui gode l’America. Consapevole dell’indebitamento ormai insostenibile (oltre 36 mila miliardi di dollari contro un PIL di 28 mila), dei giganteschi interessi che il debito comporta (quest’anno quasi mille miliardi), di una competizione sul piano economico che ancora per poco vedrà gli Stati Uniti primeggiare, dell’insidia rappresentata dalle criptovalute per l’egemonia un tempo inscalfibile del dollaro…Consapevole di tutti questi elementi, Trump ha deciso di far saltare il tavolo, imponendo a tutti di resettare le condizioni che da decenni regolavano le relazioni commerciali di Washington con il resto del mondo. Regole sottoscritte quando l’America era davvero grande e poteva permettersi di stimolare le economie altrui per costruire nuovi mercati sui quali imperare, in Asia come in Africa. Come anche in Europa, Canada e America latina. La corsa di una cinquantina di governi (UE a parte) a trovare un nuovo punto di equilibrio con Washington, in termini di tariffe doganali, è appena iniziata. La decisione del Vietnam, potenza ascendente, colpito da dazi record del 46 per cento, di rinunciare alle agevolazioni di cui ha goduto da un quarto di secolo per patteggiare un nuovo equilibrio, dà corpo alla strategia del “caos organizzato” voluto da Trump. Il testa a testa con la Cina, a colpi di rialzi dei dazi, avrà come prevedibile sbocco un negoziato e poi un accordo su basi diverse dalle attuali. E questo sarebbe un risultato rilevante di carattere strategico. Con un capovolgimento del paradigma fin qui dominante a Washington: usare la leva militare o della “sicurezza” per migliorare la posizione americana: si trattasse di alleati storici (vedi amministrazione Biden nei confronti dell’Europa) o di avversari sistemici (Cina). Trump vira di 180 gradi: usa la clava dei dazi per stabilire rapporti commerciali più vantaggiosi per il suo paese, per il suo MAGA. Se dopo le turbolenze di questi giorni le banche centrali defibrilleranno e i mercati azionari si stabilizzeranno il quadro apparirà improvvisamente più chiaro. E dovremo parlare di una variante del trattato di von Clausewitz, dove non la guerra ma l’arma doganale “non è che la continuazione della politica, con altri mezzi”. In attesa che l’ottovolante finanziario arrivi in pianura la valutazione generale dell’operato di Trump è oggetto di due approfondite analisi, firmate dall’ambasciatore Georges Martin e dall’ambasciatore Daniele Mancini. Buona lettura.