“Il G7? In questo formato non ha più senso. Oggi per essere rappresentativo dei pesi e degli interessi a livello globale dovrebbe essere composto da una dozzina di paesi”. Parola di Valery Giscard d’Estaing. Era il 2017 e l’inventore dell’annuale riunione dei “grandi” del mondo mi rispondeva così a proposito della rappresentatività di quel club che lui aveva fondato a Rambouillet appena un anno dopo l’avvio del suo settennato all’Eliseo. Per l’ex presidente francese un Gruppo che tenesse fuori Cina, India, Turchia, Indonesia, Sudafrica era già allora anacronistico. È passato più di un lustro e l’affanno del G7 si è andato confermando a ogni incontro. Un Occidente allargato al Giappone che risulta meno rilevante – in termini economici, demografici, strategici – di fronte alle dinamiche in corso. Con il gruppo dei Brics, che dagli iniziali 5 stati membri sta crescendo vertiginosamente. Con altri ‘insiemi’ geopolitici, dal D-8 (Egitto, Indonesia, Iran, Malesia, Nigeria, Bangladesh, Pakistan e Turchia) alla SCO (India, Kazakistan, Cina, Kirghizistan, Russia, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan) che costituiscono altrettante aggregazioni interessate a sviluppare relazioni che ne rafforzino la rilevanza nei rapporti con l’Occidente. Sono quei mondi che hanno evidenziato, in maniera clamorosa, la realtà dei rapporti di forza e delle alleanze durante la Conferenza che si è tenuta in Svizzera, lo scorso fine settimana, per sostenere la linea di Kiev in vista di un possibile, futuro processo negoziale con Mosca. Alla fine solo 77 Paesi si sono ritrovati a condividere la road map tracciata dagli ucraini, nonostante strada facendo i negoziatori svizzeri l’avessero depurata dei passaggi più ostici per la controparte russa. Tra i governi che si sono sfilati, anche quelli corteggiatissimi da Zelenski: India e Arabia Saudita in testa.
Dal G7 delle “anatre zoppe” (Biden, Macron, Sunak, Scholz) che si è tenuto in Italia e dalla molto preannunciata conferenza sulle alpi svizzere è emerso un mosaico che fa riflettere e che conferma ciò che già a maggio del 2022, poche settimane dopo l’inizio della guerra russo-ucraina, una influente analista americana come Angela Stent aveva messo nero su bianco su Foreign Policy. Il saggio, dal titolo “The West vs. the Rest”, fotografava lo stato dell’arte delle alleanze internazionali. L’occidente euro-atlantico, che sanzione dopo sanzione era convinto di aver isolato la Russia, si ritrovava sorprendentemente in minoranza nei confronti del resto del mondo. Una realtà che nei successivi due anni di conflitto, con una guerra fredda nuovamente a dividere il mondo, è stata confermata e rafforzata. Un dato su cui i leader del G7 farebbero bene ad avviare una profonda riflessione prima di perdere ulteriore appeal nei confronti di mondi – Asia, Africa e America Latina – su cui hanno erroneamente creduto di esercitare una ineludibile attrazione. Un bagno di realismo e di umiltà che dovrebbe prima o poi contagiare anche Zelenski. Le sue ambizioni di recuperare a Kiev tutti territori controllati da Mosca appariva irrealistica già un anno fa e risulta adesso addirittura velleitaria. Glielo stanno facendo capire alcuni dei suoi principali alleati ma il presidente ucraino preferisce ancora aggrapparsi agli irriducibili guidati da Stoltenberg e dai baltici col supporto polacco e inglese. Un arrocco che è costato a Zelenski il sostegno di buona parte del suo originario inner circle, smantellato senza tanti complimenti quando i pareri degli esperti non coincidevano con la visione del Capo. In occidente si è registrata asetticamente questa girandola di defenestrazioni enfatizzando piuttosto gli avvicendamenti disposti a Mosca da Putin dopo la rielezione. L’analisi di Fulvio Scaglione consente di comprendere meglio i contorni della vicenda. Mentre Pascal Boniface propone una valutazione dei rischi o delle opportunità che una eventuale rielezione di Donald Trump potrebbe comportare sullo scacchiere internazionale.