Opinions #30/24

Opinions #30 / 24

La politica internazionale vive davvero settimane convulse. La concentrazione di oltre cinquanta consultazioni elettorali in programma quest’anno lasciava prevedere un periodo vivace ma il presente ci offre molto di più. In Occidente, ovvero Stati Uniti e Europa, tutte le principali leadership sono alle prese con nuove sfide, alla ricerca di difficili equilibri. Vincitori veri, in pectore, così come i vinti, puntano a creare nuove alleanze, coalizioni, maggioranze. Lo psicodramma in corso a Washington ha offerto un colpo di scena clamoroso. Joe Biden stava arrivando alla Convention democratica di Chicago, ad agosto, nelle condizioni peggiori per sé e per il suo partito. Il pressing affinché rinunciasse, da parte dei maggiori esponenti democratici, dei congressisti e dei finanziatori della sua campagna elettorale era divenuto ineludibile. Ma formidabile è stato fino all’ultimo il tentativo del clan Biden – moglie, figlio, sorella, nuora, nipoti etc. – di resistere alla richiesta di chiamarsi fuori. La vice presidente Kamala Harris entra in corsa appoggiata da una parte dei maggiorenti democratici e da parecchie centinaia di delegati, ma le insidie fino all’investitura come candidata ufficiale saranno molte. A temere l’entrata in scena di un candidato diverso da Biden è soprattutto Trump. “Miracolato” dal fallito attentato, “the Donald” sente avvicinarsi il ritorno al vertice del potere che avrebbe il sapore unico di una rivincita senza precedenti. Vittoria praticamente certa con Biden di fronte, tutta da conquistare contro un qualsiasi altro candidato. Significativa è la telefonata dei giorni scorsi, dopo lo sparo di Butler, tra Trump e Robert Kennedy jr, il candidato indipendente che piace all’elettorato giovane e progressista ma che trova consensi anche fra i repubblicani. L’invito di Trump a mettersi insieme per fare “grandi cose” è sintomo delle preoccupazioni del tycoon ma non è un passo estemporaneo. Un anno fa Steve Bannon, il controverso consigliere di Trump negli anni della sua presidenza, aveva avanzato l’idea di un ticket Trump-Kennedy jr con l’obiettivo di prosciugare il bacino elettorale dei democratici mainstream. In realtà, questo è il momento in cui tutti cercano tutti. Come il nuovo premier laburista britannico Starmer che vuole ricucire con l’Unione Europea a otto anni della Brexit. La Global Britain si è rivelato un progetto geopolitico velleitario quanto fallimentare. Per provare a uscire dal guado in cui si ritrova il paese di re, principesse e scandali di corte, Keir Starmer non esita ad appoggiarsi anche al capo del governo di destra italiano. Con Giorgia Meloni il nuovo inquilino di Downing street vuole rilanciare la “relazione speciale” stabilita tra la leader di Fratelli d’Italia e il suo predecessore, il conservatore Rishi Sunak. Proprio mentre la Meloni, vincitrice delle elezioni europee, si ritrova isolata a Bruxelles. Paradossi di una politica ansiosa e ansiogena, che nel generale disorientamento gioca due giochi contemporaneamente: a scacchi e a risiko, spesso mescolando pedine e carte. Così, non si era ancora spenta l’eco dell’ennesima standing ovation tributata all’ennesima performance di Zelenski, stavolta ospite della prima seduta del nuovo governo britannnico, che lo stesso presidente ucraino doveva inventarsi un nuovo approccio all’alleato americano. Tempi e toni della sua telefonata, nei giorni successivi all’attentato, testimoniano la preoccupazione di ingraziarsi Trump. Il candidato favorito per tornare alla Casa Bianca non è un alleato “senza se e senza ma” dell’Ucraina, come Joe, che per anni da Kiev ha ottenuto stipendi milionari per il figlio Hunter. L’unico vero amico europeo di Trump è il premier ungherese Viktor Orban, che ha già iniziato a tessere una potenziale soluzione al conflitto che tenga prioritariamente insieme ragioni e interessi di Stati Uniti, Russia, Cina, di una parte dell’Europa e solo marginalmente di Kiev. Scenari in movimento, aggravati dall’escalation mediorientale. Dove Netanyahu gioca la partita dello spauracchio di un conflitto allargato con l’Iran, attraverso il pretesto sciita degli houthi yemeniti, per continuare indisturbato la sua guerra contro i palestinesi. Un quadro d’insieme nel quale, per la prima volta dal Secondo dopoguerra, risulta inavvertibile la voce di Parigi. Effetto dello sconquasso seguito al risultato delle elezioni europee prima e delle elezioni politiche anticipate, subito dopo. Una situazione nuova e inconsueta su cui si focalizza l’analisi di Marc Lazar, che individua in Macron il principale responsabile dell’ingovernabilità e della debolezza in cui si ritrova la Francia. Mentre in quella “fabbrica del mondo” che è ormai il continente asiatico è l’esito del voto in India a catalizzare l’interesse. Con la vittoria del premier uscente Modi, meno trionfale del previsto, e con il subitaneo viaggio a Mosca da Putin posti al centro della riflessione di Daniele Mancini.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri